Tratto da La birra nel mondo, Volume V, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Asheville, Carolina del Nord/USA
Walt Dickinson aveva fatto il birraio presso i birrifici cittadini Craggie Brewing Company, Green Man Brewery e French Broad Brewery.
A sua volta, Luke Dickinson, dopo aver praticato un po’ l’homebrewing con un kit regalatogli dal fratello in occasione del 21° compleanno, era andato a lavorare come volontario, per imparare il mestiere, presso la Dogfish Head Brewery di Milton (nel Delaware), che lo aveva poi assunto nella propria Tasting Room.
Già dal 2009 i due fratelli avevano cominciato a programmare un’attività in proprio nell’intento di produrre le IPA della West Coast e le birre acide del Belgio, di cui erano innamorati. Ma soltanto a dicembre del 2012 poterono realizzare il loro sogno, grazie al finanziamento dei genitori dell’amico Ryan Guthy, Rick e Denise, homebrewer dal 2001.
Aprì così, nel centro cittadino, in un edificio degli anni ’30 ex stazione di servizio della Gulf, il brewpub Wicked Weed, con un impianto da 15 ettolitri e oltre 25 spine. Mentre arrivava in aiuto, dalla Dogfish Head, il birraio Eric Leypoldt.
Diversamente da Luke, amante delle IPA e delle imperial stout, Walt preferiva lavorare con i lieviti selvaggi e gli invecchiamenti in botte. Ma, data la pericolosità dei lieviti selvaggi, nell’ottobre del 2014 fu inaugurato, nel quartiere South Slope, The Funkatorium con annessa taproom, una seconda unità produttiva dedicata esclusivamente alle birre acide.
A luglio dell’anno successivo, per fronteggiare l’inarrestabile crescita di volumi, fu aperto un nuovo birrificio da 58 ettolitri nella periferia a ovest della città. Ma ecco che, nell’aprile del 2017, quando ormai la produzione era arrivata a 60 mila ettolitri, Wicked Weed Brewing, come tanti altri birrifici artigianali, finiva nel segmento High End di AB-InBev.
Wicked Weed Dark Age Stout (Bourbon Stout), imperial stout di un impenetrabile colore nero come l’inchiostro (g.a. 10,8%, effettiva 12%). La prima birra barricata della casa, utilizza botti di bourbon selezionate da tre principali produttori del Kentucky: Blanton’s, Buffalo Trace e Four Roses. Nonostante l’elevato tenore alcolico e la permanenza in legno per sei mesi, il produttore la definisce una birra “gentile”. La carbonazione è quasi assente; la solida schiuma color cioccolato, fine, cremosa, di buona tenuta e anche allacciatura. L’aroma, intenso e pervicace, è chiaramente dominato dalla componente etilica (bourbon, whisky, porto); relegati quindi in sottofondo, cioccolato, malto tostato, caffè, zucchero bruciato, devono, obtorto collo, accettare la convivenza degli scalpitanti sentori di quercia, caramello, salsa di soia, vaniglia, speck, prugne secche. Il corpo, da medio a pieno, ha una deliziosa tessitura cremosa. Nel gusto, il passaggio in botte sale subito alla ribalta e, con sorprendente facilità, entra in sinergia con i ricchi sapori di malto scuro, caffè, vaniglia, cioccolato fondente. Da parte sua, l’alcol non può tenersi nascosto più di tanto; riesce comunque a coprire sufficientemente lo sfondo un po’ appiccicoso di melassa. Ma quel minimo di residuo dolciastro viene bruscamente ripulito dal finale, ricco di whisky e di bourbon. La lunga persistenza retrolfattiva si svolge all’insegna di suggestioni legnose, vanigliate, anche delicatamente speziate.
Wicked Weed El Paraiso (Bourbon Barrel),imperial stout di colore marrone molto scuro, vicino al nero, e dall’aspetto opaco (g.a. 10%). Utilizza fave di cacao e caffè colombiano della Mountain Air Roasting di Asheville. Si tratta dell’evoluzione della Red Eye (g.a. 8,6%), altra imperial stout al caffè, commercializzata nel 2013 e disponibile solo alla spina. In bottiglia, comparve solo nel 2016 e, nel 2018, nella versione barricata in botti ex bourbon. La carbonazione è piuttosto bassa; la schiuma, di un marrone chiaro, non così ricca, ma compatta, cremosa, di pregevole tenuta e aderenza. L’aroma si esprime in tutta la sua intensità, e con eleganza, pulizia: caffè espresso e in grani, malto tostato e caramello bruciato, legno e vaniglia, prugna e uvetta sotto spirito, cioccolato fondente e al latte; il tutto, ovviamente, nella rovente atmosfera creata dal bourbon. Il corpo, da medio a pieno, ha una consistenza che oscilla tra la grassa e la cremosa. Il gusto è denso, sostanzioso, molto gradevole, con in particolare evidenza note di caffè, cioccolato, legno, malto tostato; e sono proprio le tostature a tenere in piedi un discreto equilibrio man mano che si attenuano vaniglia, caffè e bourbon. In prossimità del traguardo spunta qualche indizio acido vinoso, che si dilegua presto tra il cioccolato e la vaniglia del concitato finale. Nell’articolata ricchezza retrolfattiva si distinguono abbastanza le sensazioni amare del caffè, quelle acide dei malti neri e quelle calde del bourbon.
Wicked Weed French Toast Stout (Bourbon Barrel), imperial stout di colore testa di moro/nerastro e dall’aspetto quasi opaco (g.a. 12,3%). French toast (in francese pain perdu) è esattamente il “pane raffermo” ammollato in un liquido (come acqua o latte). Divenne addirittura, nel 1724, un’invenzione di Joseph French in una taverna di Albany (New York). E, con l’aggiunta di vaniglia, cannella e sciroppo d’acero, nonché invecchiamento in botti ex bourbon provenienti dal Kentucky, nel 2016 la Wicked Weed lanciò questa specialità. Con una carbonazione mediobassa, la schiuma, più marrone chiaro che beige, emerge abbondante, fine, cremosa, non così aderente ma sufficientemente stabile. Al calore del bourbon, e con la cannella che rimane con discrezione in sottofondo, si apre un attraente bouquet olfattivo che può annoverare vaniglia, caramello, sciroppo d’acero, cioccolato bianco, biscotti, caffè al latte, cocco tostato, mou, zucchero di canna. Il corpo, decisamente pieno, ha una morbida tessitura cremosa. Nel gusto, la dolcezza della melassa, dei datteri, della vaniglia, dell’uva passa, dello sciroppo d’acero, viene a fatica contrastata dal legno e dal bourbon, a detrimento dell’equilibrio che chiama a gran voce, purtroppo invano, un po’ di amarore, magari da qualche chicco di caffè, dal cioccolato fondente o dalle tostature. Neanche al termine della lunga corsa la vaniglia mostra la minima intenzione di attenuarsi. Nel retrolfatto rimane addirittura un certo bruciore alcolico, che strozza sul nascere qualche accenno di luppolo, anzi gli conferisce un’impressione medicinale.