Tratto da La birra nel mondo, Volume IV, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Bakewell/Inghilterra
Birrificio indipendente nel Derbyshire.
La Thornbridge Hall, una grande casa di campagna nel Peak District National Park, nei dintorni di Ashford-in-the-Water, dal secolo XII al 1790, appartenne alla famiglia Longstone. Dopo di che cambiò diversi proprietari, fino al 1945, allorquando ne prese il controllo la municipalità di Sheffield che la adibì principalmente a scopo didattico.
Per scarsità di fondi pubblici, nel 1997 la municipalità fu costretta a vendere l’intera area alla famiglia Hunt.
Caduta progressivamente in disuso, la tenuta fu acquistata, nel 2002, dai coniugi Jim e Emma Harrison, che ne fecero la propria dimora e un luogo esclusivo per grandi ricevimenti e altri importanti eventi mondani e culturali.
Poi Jim, imprenditore di successo nell’industria alimentare, assaggiando le birre di un suo conoscente, Dave Wicketts della Kelham Island Brewery di Sheffield, ebbe l’idea di aprire anche lui una fabbrica di birra artigianale, potendo peraltro sfruttare le risorse idriche della zona, ricca di acque particolarmente adatte per la birrificazione.
Nacque così, nel 2005, con un piccolo impianto quasi tutto di seconda mano, quella che allora veniva chiamata “The Brewery baby”. Mentre Simon Webster, socio in affari di Jim, provvide a trovare il birraio: l’italiano Stefano Cossi, laureato in scienze dell’alimentazione all’Università di Udine e con esperienza presso la Stones Brewery di Sheffield che aveva chiuso nel 1999. Dal 2007 poi Cossi venne coadiuvato dal neozelandese Ryan Kelly, laureato in microbiologia, scienze e tecnologie alimentari in patria, all’Università di Otago.
Nel 2007, insieme a Garrett Oliver, mastro birraio della statunitense Brooklyn Brewery, Cossi creò la Thornbridge Alliance Reserve, una piccola gamma di birre affinate in botte oggi fuori produzione.
Ormai la “The Brewery baby” era cresciuta troppo e, nel 2009 si rese necessario il trasferimento in uno stabilimento ultramoderno, a Bakewell, sempre nel Derbyshire. Mentre la denominazione diventava quella attuale e, a Thornbridge Hall, rimasero produzioni sperimentali, i lotti piloti, gli invecchiamenti in botte.
Ovviamente, nel corso degli anni, si sono alternati tanti altri birrai, a cominciare dallo scozzese Martin Dickie, che prese il posto di Stefano Cossi ma che poi andò via per fondare in patria, insieme a James Watt, la BrewDog.
Comunque lo standard qualitativo delle birre è rimasto molto elevato, facendo della Thornbridge uno dei più interessanti e innovativi microbirrifici di tutta l’Inghilterra.
La vastissima gamma di birre, in bottiglia, keg e cask, è brassata con materie prime prevalentemente inglesi, ma arricchite anche con luppoli americani e neozelandesi. La produzione, di oltre 30 mila ettolitri all’anno, trova ormai sbocco in tutto il mondo, in almeno 30 paesi.
Tutte le birre sono non pastorizzate e rigorosamente “bottled conditioned”.
Thornbridge Chiron, american pale ale di colore dorato con riflessi aranciati e dall’aspetto velato (g.a. 5%). Trae le sue origini da una pale ale trasformatasi nel corso degli anni. È dedicata al centauro della mitologia greca Chirone del quale si trova una statua all’interno della Thornbridge Hall, insieme a quella della dea romana e italica Flora. Con una moderata effervescenza, la schiuma, alquanto sporca, sbocca enorme, fine, cremosa, ma si assottiglia rapidamente. Nell’aroma, freschezza ed eleganza si sostituiscono all’intensità: e i pochi, semplici, sentori aciduli del pompelmo si mescolano armonicamente a quelli dolci dell’arancia e del mandarino, riservando non più di un angolino agli aghi di pino e a un luppolo floreale. Il corpo medio tende al leggero, in una squisita consistenza acquosa. Le fragranti note di malto biscotto che danno inizio al regolare percorso gustativo pian piano lasciano spazio a quelle citriche e agrumate, sino alla composizione di un superbo equilibrio tra luppolo acido, malto succoso e frutta piccante. Nel finale, c’è un tentativo di riapparizione da parte della dolcezza del malto; subito però si leva una secchezza ripulente a spianare la strada a una decente persistenza retrolfattiva di sensazioni resinose apportatrici di un discreto balsamico.
Thornbridge Jaipur, india pale ale di colore giallo oro lievemente sfumato e dall’aspetto nebuloso (g.a. 5,9%). La flagship beer della casa, porta il nome della città rosa del Rajastan e, fin dalla sua nascita, ha ricevuto elogi e premi anche a livello internazionale. Con una delicata effervescenza, la schiuma bianca, sottile, compatta, cremosa, ostenta durata e allacciatura. L’aroma si esprime con sentori fruttati pungenti ma eleganti, nella piena esaltazione del mandarino, della scorza d’arancia, del lime, della pesca bianca; mentre dal sottofondo arrivano, senza però disturbare minimamente, insistenti spunti di uva spina, ginestra, resina. Il corpo medio tende al leggero, in una consistenza volutamente acquosa per facilitare lo scorrimento della bevuta. Irreprensibile l’equilibrio gustativo: all’iniziale dolcezza del malto, si oppone subito la “sapiente” luppolizzazione, e le note diventano erbacee, vegetali per prendere una venatura agrumata che si fa sempre meno sottile e insignificante. L’agrumato persiste nello scoppiettante finale, sino a prendere le vesti di un delizioso amaro. Amaro, che, nella discreta persistenza retrolfattiva, sa perfino essere delicato, tra impressioni vegetali e di scorza di pomplemo.
Thornbridge Huck, double/imperial IPA color rame con riflessi aranciati e dall’aspetto leggermente torbido (g.a. 7,4%); luppolizzata con Mosaic, Simcoe e Amarillo. Una delle prime birre confezionate dalla Thornbridge in bottiglie da 33 cl. La carbonazione è abbastanza contenuta; la schiuma avorio, minuta, compatta, cremosa, di ottima ritenzione. Aromi di dolci frutti tropicali, agrumi, aghi di pino, resina, in particolare, esplodono subito all’olfatto, in un caldo alone alcolico che ricorda vini liquorosi e amari alle erbe. Un lontano quanto labile sentore di mirtilli, che ritornerà anche al palato, spiega invece il nome della birra: in inglese, huckleberry vuol dire infatti “mirtillo”. Il corpo medio ha la tipica consistenza a chiazza di petrolio. Ancora intensità e freschezza nel gusto, con le note amare dei luppoli che caratterizzano la bevuta potendosi avvalere, a scongiurare il minimo pericolo di sbilanciamento, della solida base di malto caramellato. Come pure non ha remore l’alcol a far sentire la propria presenza con un’intrigante calda secchezza. Nel finale, il rampicante assume una posizione predominante, come a dimostrare che non ha più bisogno del cereale per soddisfare il bevitore. E le lunghe impressioni retrolfattive sanno tanto di erbe amare attenuate però da una lieve venatura fruttata.
Thornbridge Wild Raven, black IPA di un nero ebano impenetrabile (g.a. 6,6%). Nacque nel 2008 come Thornbridge Raven; poi, nel 2013, perché si distinguesse da un’altra birra commercializzata con lo stesso nome, le fu aggiunto l’aggettivo Wild (ovvero “selvaggia”). Viene realizzata con cinque tipi di malto e sei varietà di luppolo. La carbonazione è quasi impercettibile; la schiuma nocciola, ampia e fine, densa e pannosa, stabile e aderente. Con un sottofondo di malto tostato, l’aroma si apre in tutta la freschezza degli agrumi, degli aghi di pino, dell’erbaceo dei luppoli. Il corpo medio tende al pieno, in una spiccata consistenza oleosa. Nel gusto, pane nero, caramello, toffee, zucchero candito, prima e poi, malto tostato, fave di cacao, orzo, liquirizia, intonano un lungo percorso che si arricchisce di succose note di polmpelmo e ananas per sfociare nella secchezza amara della resina e degli aghi di pino. Il finale coniuga armonicamente la componente tostata e quella luppolizzata, spianando la strada a una lunga persistenza retrolfattiva dalle impressioni di cioccolato fondente, ozo torrefatto, fondi di caffè, e con un labile spunto fruttato.
Thornbridge Saint Petersburg, russian imperial stout di colore nero con riflessi rossastri e dall’aspetto opaco (g.a. 7,4%, in precedenza 7,7 %). Dedicata a John Morewood che, arricchitosi con l’esportazione di lino da Manchester a Saint Petersburg, nel 1790 acquistò la Thornbridge Hall. La carbonazione è molto bassa; la schiuma beige, fine, solida, cremosa, di ottima tenuta. Nella sua attraente finezza, l’olfatto presenta un’intensità abbastanza elevata: malti scuri e caramello bruciato, cioccolato amaro e caffè tostato, frutta secca e polpa di prugna matura, melassa e liquirizia; e con un languido sottofondo di cannella, cenere e fumo di torba. Il corpo medio ha una tessitura tendenzialmente grassa. Nel gusto, le tostature iniziali scivolano pian piano in una gradevole consistenza dolceacidula di ribes, per poi venir fagocitate dalle note oleose del caffè e del cioccolato. Il finale rimane stabile in un secco amarore. Nella lunga persistenza retrolfattiva le impressioni tostate alitano tra il fumo della torba e il calore alcolico.
Thornbridge Hall Bracia, old ale di colore nero assolutamente impenetrabile (g.a. 10%). Infusa con una generosa quantità di miele di castagno, viene rifermentata in bottiglia con lieviti da champagne. Una creazione di Stefano Cossi, tuttora prodotta quattro volte all’anno in quantità limitata, nell’impianto originario del birrificio. È la riproduzione di una forte bevanda celtica dell’età del ferro, ottenuta con cereali e, molto probabilmente, aggiunta di miele. L’idea partì dall’iscrizione su una pietra d’altare romana rinvenuta presso la Haddon Hall, a Bakewell: “Deo Marti Braciacae”. Si tratterebbe della dedica del prefetto romano Quintus Sittius Caecilianus al dio Bracacia, per i Galli Bacco dei Romani. Quanto al miele, Cossi ne aveva portato con sé in Inghilterra una grossa quantità di castagno friulano dell’azienda agricola Onelia Pin. Subito ne venne fuori una controversia con lo storico della birra Martyn Cornel, secondo il quale Bracia non sarebbe il nome di un’antica birra celtica, bensì quello gaelico di una varietà di grano. Ma Cossi, che aveva effettuato una lunga ricerca prima di scegliere il nome per la sua birra, si appellò alla diversa interpretazione della radice -brac da parte degli studiosi. La carbonazione è molto bassa; la schiuma beige, ricca, compatta, cremosa, di ottima tenuta. L’aroma si apre col miele di castagno appunto, seguito in tono minore da sentori di malto torrefatto, frutti di bosco, melassa, ciliege, fruit cake, tabacco, frutta secca, cappuccino, torba, cioccolato al latte, liquirizia: il tutto avvolto in un caldo alone etilico. Il corpo medio tende decisamente al pieno, nella sua consistenza oleosa. Miele, biscotto e fruit cake danno inizio, con la loro dolcezza, a un lungo percorso gustativo, portato invece a termine dalle note amare del caffè, della liquirizia, del cioccolato, impregnate del fumo di torba. Da parte sua, l’alcol accompagna l’intera bevuta con discrezione, guardandosi bene dall’intralciare la piacevole scorrevolezza. Il finale si rivela asciutto e pressoché astringente per via delle tostature che l’etanolo contribuisce al loro rinsecchimento. Le impressioni del retrolfatto rievocano caffè, cioccolato amaro, cera d’api, riscaldate dal porto e dal vin brûlé.