Tratto da La birra nel mondo, Volume II, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Hoegaarden/Belgio
Hoegaarden è un piccolo comune del Brabante Fiammingo che, trovandosi nel cuore della terra del frumento, è noto fin dall’antichità per le sue torbide “bianche”. Furono i monaci del monastero di Bergaden, fondato nel 1445, a inventare questo tipo di birra, almeno così si sostiene.
Diversi secoli addietro questa zona delle Fiandre apparteneva all’Olanda, che importava dalle Indie Orientali spezie come il coriandolo e la scorza d’arancia di Curaçao. Pertanto il tradizionale gruit venne presto sostituito con tali spezie, e la birra ci guadagnò tantissimo in termini di qualità: il segreto del suo grande successo.
Fu così che Hoegaarden divenne un centro di attività brassicola sempre più intensa. Le 12 birrerie che si contavano all’inizio del secolo XVIII, verso la fine del XIX, passarono a 35, e in un paese con appena 2 mila abitanti.
Poi le due guerre mondiali e, successivamente, la rivoluzione delle lager fecero chiudere, nel 1957, anche l’ultimo birrificio, la Brouwerij Louis Tomsin.
Dovettero passare otto lunghi anni prima che a qualcuno passasse per la testa l’idea di risuscitare la tipologia. Stiamo parlando di Pierre Celis, il lattaio del paese da quando si era sposato. Prima lavorava nella fattoria di bestiame del padre e, nel tempo libero, dava una mano nella vicina Brouwerij Tomsin, che produce appunto la birra tradizionale del paese. Dunque, nel 1965, Pierre effettuò una produzione di prova in una vasca di lavaggio nella stalla della fattoria.
Gli elogi degli amici convinsero Pierre ad andare avanti. Con un prestito del padre, comprò le apparecchiature di una birreria abbandonata di Heusden-Zolder e mise su, nel fienile, una piccola fabbrica artigianale, la Brouwerij Celis, che nel 1966 “sfornò” il primo lotto.
Aveva così inizio la fortuna per Celis, padre e artefice della “regina” delle witbier, audace imprenditore capace di unire le qualità del mastro birraio vecchio stile all’istinto manageriale moderno. La qualità e la freschezza della sua birra, che si serviva unicamente e orgogliosamente del cereale della zona, s’imposero presto all’attenzione dei consumatori locali, anche grazie al supporto del sindaco del villaggio, Frans Huon.
Con la domanda che continuava a crescere, Celis acquistò Hougardia, un’ex fabbrica di soft drink, e nel 1980, con l’aiuto dal mastro birraio Marcel Thomas della Brasserie Loriers chiusa, creò la De Kluis alla quale, come doveroso omaggio ai frati di Bergaden, diede il nome di De Kluis (“Il Chiostro”).
La notorietà della birra De Kluis aveva ormai varcato i confini del Paese. Cominciarono le esportazioni verso l’Olanda e la Francia.
L’autunno del 1985 si rivelò invece fatale: un incendio distrusse completamente la fabbrica in sottoassicurazione. Celis pertanto non poté snobbare l’immissione di capitale offerta dalla Artois per la ricostruzione dell’impianto e nel 1987 dovette cedere il controllo dell’attività.
L’inizio fu folgorante e la witbier raggiunse presto gli Stati Uniti. Ma proprio il successo determinò tutta una serie di contrasti fra uno strenuo paladino della qualità, come Celis, e un’azienda sulla cresta dell’onda sempre più interessata ad accorciare i tempi di produzione per incrementare gli utili.
Alla fine Celis si rese conto che soltanto con l’indipendenza si può lavorare secondo il proprio punto di vista. Vendette quindi l’attività alla Interbrew, nata nel 1988 dalla fusione della Artois e della Jupiler, e si mise in viaggio verso gli Stati Uniti dove la sua birra era ormai diventata famosa.
Alla De Kluis va comunque riconosciuto il merito di aver determinato la rinascita della witbier di Hoegaarden. Negli ultimi decenni le vendite della “bianca” aromatizzata con coriandolo e scorza di arancia amara sono cresciute a dismisura, anche all’estero; e oggi qualsiasi produttore belga non può prescindere dalla realtà di mercato.
Anche la Hougaerdse Das, fu resuscitata dalla Hoegaarden, nel 1996. Questo prodotto era stato lanciato nel 1931 dalla De Grote Brouweriijen van Hoegaarden, più nota come la Brasserie Loriers, dal nome della strada in cui si trovava. Un’elaborazione del mastro birraio Marcel Thomas, che aveva visitato varie fabbriche di birra in Inghilterrra. Ed era diventata una birra molto popolare nella zona, fino al 1959, quando la Brasserie Loriers fu acquistata da Artois per venir chiusa nel 1972. Purtroppo, nel 2009, questa specialità venne abbandonata anche dalla Hoegaarden.
Dopo la partenza di Celis, la Brouwerij di Hoegaarden, cercò di mantenere elevata la qualità dei prodotti, nei limiti ovviamente consentiti dai grandi numeri di fabbricazione.
La supremazia della Hoegaarden è confermata a livello internazionale dal conseguimento di numerosi premi, che possono essere racchiusi tra la prima e l’ultima medaglia d’oro, rispettivamente del 1996 e del 2002, ai World Beer Cup USA. Mentre, per valorizzare adeguatamente il prodotto, nel 1998 la Interbrew creò un apposito tipo di locali, i Belgian Beer Café, che hanno appunto la Hoegaarden a protagonista.
Alla fine purtroppo, per i soliti motivi di razionalizzazione produttiva, il megagruppo InBev decise nel 2005 di chiudere lo stabilimento di Hoegaarden spostando tutta la sua produzione a Jupille, nell’impianto che era stato della Jupiler prima che questa azienda si fondesse con la Artois.
Tale decisione suscitò un’ondata di proteste da parte della gente di Hoegaarden, che avrebbe così perduto il simbolo più famoso della cittadina e il più grande datore di lavoro. Ma giocò in suo favore l’incapacità della fabbrica di Jupille di imitare il gusto tipico della Hoegaarden. Pertanto, nel 2007, la InBev decise di mantenere la produzione a Hoegaarden. E annunciò anche lo stanziamento di 60 milioni di euro per migliorare le strutture.
La specialità al top di questo birrificio è ovviamente la tradizionale birra Hoegaarden, che impegna oltre l’80% dell’intera produzione. Ma l’offerta comprende anche altre ale di tradizione belga con rifermentazione in bottiglia. Questa seconda fermentazione dura circa due settimane alla temperatura costante di 26 °C. E, di conseguenza, la birra si presenta nel tipico aspetto torbido per i lieviti in sospensione.
Hoegaarden, witbier di colore giallo paglierino tenue (g.a. 4,9%); la più nota birra di frumento belga. Alla spina è senz’altro più fresca e pastosa. L’elaborazione avviene secondo una ricetta del 1445. Frumento integrale, orzo non tallito e malto di avena, sono i cereali previsti. Il luppolo è delle varietà Golding e Saaz. I semi di coriandolo e la buccia d’arancia di Curaçao essiccata danno la speziatura. Alla rifermentazione invece provvedono lo zucchero e un particolare lievito che, precipitando in bottiglia lentamente, contribuisce a determinare la caratteristica torbidezza “bianca”. Con una media effervescenza, la spuma, profumata di scorze d’arancia, trabocca cremosa, stabile, aderente. Un intenso profumo speziato, nel quale si percepiscono nettamente la scorza di arancia e il coriandolo, sovrasta ai sentori fruttati, floreali e di lieviti, rendendo elegante la finezza olfattiva. Il corpo, medio-pieno, frizzante, dalla trama acquosa, attacca il palato con garbo voluttuoso. Il gusto è quello fresco e acidulo del frumento belga non sottoposto a maltaggio, con un leggero fondo di miele, lievito, agrumi. Il finale, intensissimo di succo di limone, determina un impatto aromatico, secco, astringente. Una genuina asprezza caratterizza il lieve ma persistente retrolfatto, in cui armonizzano suggestioni fruttate, floreali, di lievito belga. Con l’invecchiamento, il prodotto acquista quella rifrangenza che viene chiamata “lucentezza doppia”; mentre il fruttato asprigno si evolve in un dolce mielato. Quanto al consumo, occorre una temperatura di 3 °C ed è bandita qualsiasi aggiunta. La bottiglia deve essere stata in frigorifero almeno 12 ore ma non più di 10 giorni; va agitata per rimuovere i sedimenti dal fondo e quindi ripristinare il tipico aspetto torbido, risciacquata con abbondante acqua fredda senza asciugatura e… versata nel caratteristico bicchiere esagonale di vetro spesso che preserva ed esalta la freschezza e accentua la torbidità. In riguardo alla forma esagonale del bicchiere, esiste una leggenda che vale la pena rammentare. Un giorno nel paese di Hoegaarden finirono i bicchieri per la birra. Gli abitanti non si perdero d’animo: cominciarono a utilizzare i tradizionali vasi in cui conservavano le marmellate. Il risultato si rivelò eccellente. Gli aromi fruttati, rimasti all’interno dei contenitori, rendevano la birra ancora più buona.
Hoegaarden 0.0, witbier analcolica di colore giallo pallido (g.a. 0,0%). Fu lanciata nel 2010, con commercializzazione solo in lattina. La ricetta prevede, come ingredienti speciali: frumento, zucchero, aromi naturali, acido citrico E330, coriandolo, scorza di arancia, estratto di mela. L’effervescenza, piuttosto contenuta, gestisce una schiuma bianca minuta, cremosa, di buona durata. L’aroma si libera dolce, a base di arancia, limone, malto, lievito, erba, grano, infervorati dai semi di coriandolo. Il corpo tende al sottile, in una trama decisamente acquosa. Anche il gusto è dolce, con non sgradevoli però note di agrumi, banana, pesca, scorza di limone, lievito. Il finale apporta una lieve punta di acidità, che il corto retrolfatto cerca di fagocitare, riuscendoci solo in parte, tra le sue suggestioni di zucchero artificiale.
Hoegaarden Speciale, witbier di colore giallo carico con riflessi dorati conferiti dal malto leggermente tostato (g.a. 5,6%). È la versione invernale, lanciata nel 1995, più scura e più corposa, della Hoegaarden tradizionale, commercializzata solo in Belgio nel periodo compreso tra ottobre e gennaio. La carbonazione, da bassa a moderata, genera una spuma bianca compatta e di buona ritenzione. La finezza olfattiva è attraente: sotto i delicati aromi di lievito, coriandolo, anche di tabacco, aleggiano gradevoli sentori di agrumi con fioco accento di amarore. Il corpo è pieno, rotondo, in una consistenza oleosa. Il gusto denota la fragranza di un malto a malapena torrefatto, dalle venature edulcoranti di nocciole e di miele. Il corto finale appare piuttosto speziato e rinfrescante. Del tutto singolare si manifesta invece il retrolfatto, con le sue delicate ma intense impressioni di noce. Nel versare la bevanda, arrivati a metà, bisogna girare la bottiglia per far alzare i sedimenti di lievito.
Hoegaarden Grand Cru, belgian strong ale di colore arancio dorato (g.a. 8,5%); lanciata nel 1985. La ricetta risale invece al secolo XV, opera dei monaci di Bergaden. Viene preparata con puro malto d’ozo e aggiunta di coriandolo e scorza di arancia amara. Con una media effervescenza, la spuma emerge densa e abbondante, accusando però scarsa tenuta. L’aroma, dai sentori di orzo, lievito belga, zucchero, banana, arancia, coriandolo, si sprigiona forte, insistente, avvolto in un caldo alone alcolico. Il corpo è molto ben strutturato, e regala una fresca sensazione di acidità che ammorbidisce l’elevato contenuto di etanolo. Il gusto pieno possiede anche un eccellente equilibrio per l’apporto, da parte del luppolo, di note amare nel fruttato leggermente dolce. Il finale arriva secco, lungo, segnato dall’amaricante con suggestioni di rabarbaro. Sentori di cereale e di speziatura allietano il discreto retrolfatto.
Hoegaarden Julius (Blond), belgian strong golden ale di colore biondo dorato (g.a. 8,5%). Ha carattere più vinoso e speziato rispetto alla rivale Judas della Alken-Maes. L’etichetta, oltre all’effigie di Giulio Cesare, riporta dei resti romani rinvenuti presso Lovanio. L’aromatizzazione avviene con tre varietà di luppolo. La spuma, con una media effervescenza, fuoriesce enorme, compatta, ma non eccessivamente stabile. L’aroma è persistente di cereali, con piccanti sentori di coriandolo, scorza di arancia amara, pane allo zenzero. Il corpo, di ottima struttura tra grassa e oleosa, non nasconde più di tanto la forza alcolica. Il gusto dolce di malto si evolve verso un finale secco, lasciando nel retrolfatto una durevole sensazione di luppolo erbaceo.
Hoegaarden Verboden Vrucht, belgian strong dark ale di colore marrone con iridescenza rosso rubino (g.a. 8,5%). La denominazione, in neerlandese, significa “il frutto proibito”. Ma il nome più comune è quello francese, Le Fruit Défendu. L’etichetta riporta il particolare di un’opera di Rubens raffigurante Adamo ed Eva nudi, ritenuto “conturbante” dai doganieri statunitensi che tentarono di bloccare l’importazione della birra. Nell’elaborazione vengono utilizzati coriandolo e scorza d’arancia di Curaçao, da una parte e dall’altra, luppoli aromatici Challenger e stiriani, che caratterizzano fortemente la bevanda. Con una morbida carbonazione, la bianca corona di spuma avorio appare enorme, compatta, cremosa. L’aroma si apre marcatamente fruttato e speziato. Il corpo è gagliardo, nella sua trama cremosa e un po’ appiccicosa; mentre l’alcol avvolge il palato in una travolgente sensazione di calore. Anche il gusto sa di un fruttato dolciastro; ma scivola su fondo abbastanza secco, in un’intrigante complessità aromatica: note di caffè e cioccolato, di mandorle e vaniglia, di albicocca e mela; nonché un tocco terroso di luppolo e uno speziato di coriandolo e di arancia amara. Nel finale ritorna l’etanolo, con una suggestione di asciuttezza. Completa l’“opera” il luppolo, nel retrolfatto amarognolo. Per un invecchiamento ideale, la bottiglia va tenuta in luogo asciutto e a 5-6 °C.