Tratto da La birra nel mondo, Volume IV, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Watou/Belgio
Birrificio delle Fiandre Occidentali, appena oltre il confine con la Francia, sulla strada chiamata Trappistenweg, a meno di 10 chilometri dall’abbazia trappista francese di Mont des Cats (Katsberg).
Per l’anticlericalismo in Francia, i monaci di Katsberg nel 1904 si rifugiarono in Belgio, nel villaggio di Watou, nei cui pressi trasformarono una vecchia fattoria nel Refuge Notre Dame de St. Bernard, dal nome del patrono locale. E, per finanziare le attività della comunità, si dedicarono alla produzione del formaggio.
Ricostruita poi l’abbazia di Katsberg distrutta durante la grande guerra, nel 1934 i monaci ritornarono in Francia e vendettero il caseificio a Evarist Deconinck, che iniziò subito un’opera di rinnovamento e ampliamento delle strutture produttive, mentre commercializzava i prodotti sotto il nome di St. Bernardus.
Dopo la seconda guerra mondiale, Evarist Deconick ebbe una seconda insperata opportunità. Padre De Groote, da 30 anni abate della vicina abbazia di St. Sixtus di Westvleteren, decise di mettere un freno all’attività brassicola del monastero che, con la commercializzazione in tutta la regione, si stava ormai distraendo troppo dalle attività religiose.
La birra sarebbe continuata a essere prodotta ma solo in piccole quantità, e in questi termini: per soddisfare le esigenze interne del monastero, per poterla vendere soltanto alle sue porte e per rifornire il caffè In de Vrede e altri due locali del villaggio. Mentre sarebbe stata data licenza illimitata di produzione e vendita, col marchio del monastero, a Evarist Deconinck appunto.
I monaci stessi aiutarono Evarist a costruire un nuovo birrificio accanto al caseificio, mentre il loro birraio, Mathieu Szafranski (di origine polacca) ne diventava socio, utilizzando le ricette, il know-how e il ceppo di lievito di St. Sixtus.
Sicché Deconinck produceva birra la mattina e formaggio nel pomeriggio. In poco tempo fece la sua comparsa anche il logo: un monaco con un bicchiere in mano e un colore di sfondo diverso per ogni tipo di birra. Nel corso degli anni l’etichetta stessa riportò diversi nomi: prima Trappista Westvleteren, poi Sint-Sixtus, infine Sint-Sixtus & St. Bernardus.
Col tempo però Evarist si rese conto che era più redditizia la produzione di birra. E, nel 1959, smise di fare formaggio, vendendo il marchio alla St. Bertin di Poperinge, che sarà più tardi assorbita dal gruppo Belgomilk. Mentre l’edificio accanto, che ospitava il vecchio caseificio, sarà trasformato in un comodo rifugio per gli amanti della birra, B & B.
Nel 1962 Bernadette Deconinck, figlia di Evarist, sposò l’ingegnere Guy Claes e, insieme, ottennero dai monaci la licenza di produzione e commercializzazione per altri 30 anni.
Ma nel 1985 l’abbazia di St. Sixtus si dotò di un impianto moderno, mettendosi in condizione di non aver bisogno più di nessuno. E, nel 1992, scaduto il contratto di licenza, si rifiutò di rinnovarlo, sostenendo che la birra trappista poteva essere prodotta soltanto entro le mura di un monastero trappista. Decisione, questa, che sarà presa ufficialmente nel 1997 dall’Associazione Internazionale Trappista. Comunque, il 1992 segna la data ufficiale di fondazione della Brouwerij St. Bernardus.
A quel punto, la St. Bernardus, dovette cominciare a camminare con le proprie gambe, in condizioni però privilegiate. Aveva in mano le quattro ricette della St. Sixtus (Extra 4, Pater 6, Prior 8 e Abt 12) e il suo lievito. Quindi continuò la loro produzione regolarmente, cambiando soltanto il marchio. E, addirittura, il marchio St. Bernardus non pativa i problemi di reperibilità che affliggevano invece quello di St. Sixtus.
Alle quattro ex trappiste si aggiunsero poi altre birre proprie. Ma, sia le une che le altre, rivelavano chiaramente l’impronta monastica.
Anche le etichette rimasero un chiaro esempio visivo della continuità produttiva: il sorridente frate che un tempo veniva raffigurato sulle etichette della St. Sixtus/Westvleteren era adesso ugualmente rappresentato, anche se in abiti civili medievali, sulle etichette della St. Bernardus.
Poi, nel 1998, il birrificio fu acquistato da investitori capeggiati da Hans Depypere, che aveva lavorato come studente presso la Bavik, sotto Antoine Nollet. Da parte sua, Guy Claes vi rimase fino al 2007 continuando a svolgere un ruolo attivo.
Nel 2013 Hans Depypere, l’amministratore delegato della St. Bernardus e l’amico Rudi Ghequire, direttore di produzione presso la Rodenbach, insieme ai rispettivi figli, Julie e Maarten, fondarono a Ypres, una microunità, Brouwerij De Kazematten, nelle casematte appunto. Gli scantinati di questa fortificazione, costruiti intorno al 1680 da Sébastien Le Prestre de Vauban, ingegnere bellico al servizio di Luigi XIV, sono stati utilizzati nel corso dei secoli come magazzino per munizioni, attrezzature militari e mensa ufficiali. E oggi quelle grotte naturali di inestimabile valore storico costituiscono l’ambiente ideale per far riposare la birra.
A settembre dell’anno successivo, con una nuova sala di cottura, la capacità produttiva della St. Bernardus fu portata a 80 mila ettolitri. Mentre metà dei 33 mila ettolitri annui attuali va all’estero.
Anche se, inevitabilmente, nel corso degli anni l’impronta monastica si è abbastanza alterata, la gamma di queste birre, pluripremiate in concorsi del calibro del World Beer Championships, è rimasta di ottimo livello: e molti le considerano autentiche eredi delle trappiste di Westvleteren, peraltro difficili da ottenere al di fuori dell’area.
Abbiamo detto che alla St. Bernardus rimase il lievito di St. Sixtus. Sicché a Westvleteren arrivava adesso quello fornito dai fratelli trappisti di Westmalle. E alla St. Bernardus addirittura hanno scoperto che quel ceppo di lievito monastico utilizzato dal 1946 è estremamente efficace nella convertibilità degli zuccheri, lasciando un minimo residuale. Inoltre conferisce alla birra il proprio carattere fruttato privo di aroma alcolico.
L’acqua viene pompata a una profondità di 152 metri. Secondo una leggenda, si tratta di pioggia caduta all’epoca di Giovanna d’Arco (prima metà del secolo XV) e quindi filtrata attraverso il permeabile strato di sabbia.
Anche buona parte di luppolo è quello di sempre. Le coltivazioni del Refuge di Watou sono ora quelle del campo di luppolo nato accanto al birrificio.
Dopo una maturazione di tre mesi in vecchi fusti di rovere, la birra, non filtrata, viene imbottigliata con una dose di lievito e di zucchero per la rifermentazione. Nel gusto predomina il sentore del malto con toni fruttati e speziati.
St. Bernardus Extra 4, belgian ale di colore giallo paglierino e dall’aspetto velato (g.a. 4,8%). È la meno alcolica e la più luppolizzata della casa, disponibile in primavera e in estate, trattandosi di un prodotto, oltre che leggero, particolarmente rinfrescante e dissetante. Classica single o enkel, in genere bevuta dai monaci, figurava tra le quattro trappiste ottenute in licenza nel 1946 dall’abbazia di St. Sixtus. Poi, negli anni ’70, la richiesta calò di brutto e la sua produzione a Watou cessò, non probabilmente a Westvleteren per il consumo interno. Infine, nel 2014, la St. Bernardus decise di riportarla in vita con la fabbricazione iniziale di una sola volta all’anno e la commercializzazione a partire dal 15 di maggio. La carbonazione è elevata; la schiuma, bianca come la neve, sottile, compatta, cremosa, di notevole persistenza. L’aroma si apre pulito, intenso, elegante: la dolce fragranza del pane appena sfornato è inseguita dalla frutta in prima maturità di pesca, cotogna, pera, che, raggiunta, si mescola con erbe, fiori bianchi, scorza d’arancia, entrando quindi nella composizione di un pot-pourri infervorato da pepe, coriandolo, radice, chiodi di garofano, zenzero, liquirizia. Il corpo, di straordinaria leggerezza, non avrebbe potuto avere una trama meno acquosa. Il gusto, fresco, dolce, delicatamente speziato, si snoda sotto l’egida di un raffinato luppolo floreale che apporta l’amarore appena indispensabile per tenere in piedi un equilibrio da manuale. Nel finale, piacevoli note erbacee e speziate sfociano lentamente in un corto retrolfatto appena secco e agrumato.
St. Bernardus Wit/Blanche, witbier di colore arancio pallido e dal tipico aspetto opalescente (g.a. 5,5%); anch’essa fermentata con il lievito di St. Sixtus. La ricetta invece fu sviluppata in collaborazione con Pierre Celis, il rifondatore di questo stile in Belgio. La carbonazione è quella forte tipologica, ma abbastanza equilibrata e molto gradevole. La splendida schiuma bianca, fine, compatta e cremosa, si mostra di buona tenuta, anche se non così generosa. L’aroma si libera con eleganza, proponendo odori floreali, di malto, banana, lievito, polpa d’arancia, frumento, miele, esaltati da coriandolo, pepe, chiodi di garofano, erbe speziate. Il corpo ha la leggerezza necessaria e l’opportuna acquosità per rendere scorrevolissima la bevuta. Il gusto si rivela magistralmente equilibrato, morbido, pulito, appagante, grazie alla singolare se non unica combinazione di componenti essenziali come la dolcezza del malto, la cremosità del grano, l’energizzazione delle erbe, la rinfrescante acidità, la dicrezione quasi commotiva del luppolo, la delicatezza dell’alcol, il piccantello del lievito, la speziatura della buccia d’arancia di Curaçao e dei semi di coriandolo. Il finale, abbastanza lungo, risulta lievemente aspro e ripulente, secco e acidulo, erbaceo e agrumato. Le impressioni del retrolfatto appaiono intensamente speziate e fresche.
St. Bernardus Pater 6, abbazia dubbel di colore tonaca di frate con riflessi ramati e dall’aspetto torbido (g.a. 6,7%). Segue tuttora la tradizione monastica, maturando in botti di rovere. La carbonazione è piuttosto moderata; la schiuma cappuccino, dal suggestivo perlage, emerge ricca e cremosa, di notevole tenuta e aderenza. Al naso, dietro i profumi del malto alita gradevolmente un lieve sentore di tostature con accenni caramellati; intanto che la diffusa speziatura del lievito si limita a rimanere in agguato nel sottofondo. Il corpo medio ha una consistenza leggermente oleosa. Il gusto, maturo ed equilibrato, scorre a proprio agio in un morbido letto agrodolce. Nel finale emerge il luppolo in tutta la sua secchezza, e spiana la strada a un persistente retrolfatto dalle suggestioni amaricanti, legnose e delicatamente speziate.
Grottenbier Bruin, abbazia dubbel di colore marrone castagna e dall’aspetto nebuloso (g.a. 6,5%). Per la commercializzazione negli Stati Uniti l’etichetta recita “Grotten Brown Belgian Cave-Aged Ale”. Deve il nome al suo invecchiamento in grotte, questa stranissima “creatura”, realizzata con il metodo champenois, di Pierre Celis, che intendeva scoprire come le temperature costantemente basse influenzassero l’evoluzione del gusto di una birra. Dunque, una volta imbottigliata con lievito fresco e zucchero, la birra veniva lasciata maturare per due mesi in grotte a 42 metri di profondità presso Kanne, al confine con la Francia. Su appositi cavalletti (chiamati pupitres), a testa in giù, le bottiglie rimanevano a una temperatura costante di 11 gradi e con umidità del 95%. Alla fine, veniva congelato il liquido nel collo della bottiglia contenente le fecce dei lieviti esausti e, tolto il tappo, quel liquido congelato veniva espulso dalla pressione. Risultato: la maturazione in simili condizioni climatiche donava alla birra aromi e sapori particolarissimi. Inizialmente, la produzione fu affidata alla Brouwerij De Smedt. Poi questo birrificio fu rilevato dalla Heineken, e nel 2001 la licenza passò alla St. Bernardus. Con la fortuna portata dal suo nome, la Grottenbier invogliò l’azienda di Watou a immettere in commercio anche una versione di colore oro chiaro, dalla schiuma bianca densa, con sapore morbido, cremoso e leggermente erbaceo, chiamata Gottenbier Flemish Ale Blond (g.a. 7,7%). Nel 2010 però la sua produzione cessò, mentre quella della Grottenbier Bruin nel 2014 passò a Ypres potendo sfruttare le grotte della De Kazematten. Ovviamente subì un lifting, anche nel nome, De Kazematten Grotten Santé (g.a. 6,5%); mentre la ricetta rimaneva invariata, con utilizzo in piccole quantità di erbe esotiche per creare una lieve secchezza. La carbonazione è alta; la schiuma, color crema, fine, soffice, cremosa, non così ricca ma duratura. L’aroma, pulitissimo, elargisce delicati sentori vinosi, di malto, lievito belga, caramello, vaniglia, marasca, liquirizia, mela acerba; e, in secondo piano, di fiori, erbe, legno, frutta secca, liquore. Il corpo medio ha una leggera trama oleosa. Il gusto propone subito malto, lievito, uvetta, pane, frutta candita, biscotto, vaniglia; vira quindi verso note tostate e liquorose, per sfociare in una consistenza secca, acidula, piccante. Il finale si rivela di un piacevole amarognolo. Il retrolfatto, abbastanza lungo, esala impressioni di pepe, legno bruciato, erbe dall’accento medicinale e con un tocco di acidità che stimola la salivazione.
St. Bernardus Prior 8, abbazia dubbel di colore mogano con riflessi ramati e dall’aspetto torbido (g.a. 8%). Una delle più caratteristiche birre d’abbazia, che può essere considerata la “sorella maggiore” della Pater 6. La carbonazione non è eccessiva; e la schiuma beige fuoriesce a grana molto minuta, compatta, cremosa, straordinariamente tenace e aderente. L’aroma si apre complesso, sfaccettato, avvolgente: in prima fila si presentano calotta di panettone, amaretto, biscotti alla cannella, mou, zucchero di canna, marzapane, pera al cioccolato; a ridosso, arrivano sentori vinosi, aspri di ribes rosso, dolci di frutta disidratata; e, in lontananza, alitano caramello, mandorle tostate, anche un delicatissimo luppolo floreale. Il corpo medio presenta la tipica consistenza a chiazza di petrolio. Non appare tanto diversa la “polifonia” dei sapori, dolci e amari, fruttati e maltati, in perfetto equilibrio tra loro. Le note di lievito si sviluppano rapidamente nella seconda parte del percorso, quasi a soccorrere l’etanolo che sembra sonnecchiare ancora. Nel finale la lieve asprezza dei frutti rossi viene facilmente fagocitata dall’amarognolo della frutta secca. L’alcol viene allo scoperto soltanto nel retrolfatto, nelle vesti di frutta sotto spirito che lascia una lunga scia di calda dolcezza. Dolcezza, che si stempera con la maturazione del prodotto.
St Bernardus Tripel, abbazia tripel di colore dorato con riflessi aranciati e dall’aspetto velato (g.a. 8%). Nella zona intorno a Watou viene spesso chiamata “Bernadetje”, con riferimento alla figlia più giovane di Evariste Deconinck, Bernadette. Mentre è considerata “la birra della rinascita”, essendo stata prodotta due anni dopo che la St. Bernardus non era più legata alla St. Sixtus e quindi aveva cominciato a camminare con le proprie gambe. Gestita da una carbonazione alta, la schiuma bianca irrompe nel bicchiere fine, densa, cremosa, abbastanza solida nella sua permanenza. Diversamente, l’aroma si esprime con pacatezza e la pulizia necessaria perché si riesca a cogliere tutte le sue sfaccettature: un bouquet ricco di sentori dolciastri e molto fruttati, dalla banana al miele d’acacia, dal cedro candito alla crosta di pane; intanto che si fanno largo dal fondo agrumi, lievito speziato, coriandolo, luppolo floreale. Il corpo medio si propone in una consistenza quasi oleosa. Nella complessità del gusto si equilibrano a meraviglia note dolci e amare, secche e acide; mentre man mano che la birra si riscalda emerge progressivamente l’etanolo fino a scoprirsi un caldo, cordiale, brandy. Il corto finale apporta una distensiva sensazione di asciuttezza. Terminata la deglutizione, l’amaro del luppolo manifesta con elegante espressione una certa acredine che il non certo sfuggente retrolfatto ha tutto il tempo per riproporre in veste più sofisticata.
St Bernardus Abt 12, abbazia quadrupel color tonaca di frate e dall’aspetto torbido (g.a. 10%). Fiore all’occhiello dell’azienda, è una birra forte e fruttata; considerata una delle migliori birre al mondo e da alcuni equiparata alla leggendaria Westvleter 12. Utilizza, per l’aroma, il luppolo inglese Golding e, per l’amaro, il tedesco Hallertauer Magnum. Dopo tre mesi di maturazione, viene imbottigliata per la rifermentazione con un altro ceppo di lieviro e un tocco di zucchero candito. La carbonazione si mantiene nella media; la schiuma cappuccino non eccelle né per abbondanza né per tenuta. L’aroma è leggermente orientato sul fruttato, sul floreale e sul malto; con accenni di caramello e liquirizia, nonché un caldo, ossidato, sentore vinoso che alita dal fondo. Il corpo, da medio a pieno, ha una consistenza decisamente oleosa. E, mentre il calore dell’etanolo accarezza irresistibilmente il palato, la prelibata amabilità del malto si scioglie in parte tra le note di caramello e tostature. Il finale arriva con un luppolo secco dall’accento di fumo. Il retrolfatto si sviluppa lento ma risoluto, proponendo impressioni di banana matura. Con l’invecchiamento del prodotto, il sapore perde in dolcezza, che diventa raffinata vinosità. Prestigiosa birra da meditazione!
St. Bernardus Christmas Ale, abbazia quadrupel di colore ambrato carico tendente al marrone con riflessi rossastri e dall’aspetto velato (g.a. 10%); ultima nata in casa St. Bernardus. È la tradizionale birra di Natale belga, finemente speziata, intensa, corposa, di lunga persistenza sensoriale. La carbonazione è abbastanza sostenuta; la schiuma ocra, ricca, fine, compatta, cremosa, durevole e aderente. L’aroma è sotto la guida del caratteristico lievito di St. Bernardus; e. come in processione, sfilano, prima, caramello scuro, marzapane, calotta di panettone, zucchero caramellato; poi, la frutta, secca (noci, mandorle, nocciole), di bosco (ribes rosso), disidratata (prugna), sotto spirito (uva, ciliegia), aspra (amarena); si accodano, quasi a sospingere i tardi predecessori, china, liquirizia, noce moscata. Il corpo pieno si presenta sufficientemente scorrevole nella sua consistenza oleosa. Il gusto, avvelendosi della solida base di malto torrefatto, uva sultanina, caramello, biscotto al burro, frutta candita, ha l’attacco piuttosto dolce; ma presto arriva la lieve asprezza dei frutti rossi (mirtillo e ribes) e della prugna acerba, che spiana il terreno per facilitare l’ingresso equilibratore a note legnose, amare, speziate. La lunga corsa si perde in una secchezza pulita, infervorata dall’alcol. Alcol, che nel retrolfatto si trova a dirimere il contrasto tra impressioni dolci di uvetta e aspre di frutti rossi, e con un occhio di riguardo per le seconde. Una birra, questa, ideale per la meditazione.