Brasserie Rochefort

Tratto da La birra nel mondo, Volume IV, di Antonio Mennella-Meligrana Editore

Rochefort/Belgio
È la birreria trappista dell’Abbaye de Notre-Dame de Saint-Rémy, che si trova nei pressi della cittadina di Rochefort (nella provincia di Namur), un po’ nascosta alla fine di una stradina per il bosco.
La storia dell’abbazia ebbe inizio intorno al 1230, allorché Gilles de Walcourt, conte di Rochefort, fondò un monastero di monache cistercensi, chiamato Secours de Notre-Dame.
Nel 1464, per ordine dell’allora conte di Rochefort Louis de la Marck, le suore, che peraltro avevano dovuto combattere contro il clima rigido delle Ardenne in cambio del poco che offriva un suolo povero, furono sostituite da un gruppo di monaci.
In seguito, il monastero fu affidato all’abbazia cistercense di Cîteaux. E i frati, con il loro lavoro, fecero prosperare i terreni circostanti.
Già dal 1595, come si rileva dai registri conventuali, i frati avevano un piccolo birrificio e coltivavano loro stessi orzo e luppolo nei terreni di proprietà.
Più volte, nel corso della sua storia, a parte i periodici episodi di carestie e pestilenze, l’abbazia patì saccheggi, incendi, devastazioni a opera dell’esercito conquistatore di turno. Ma, fedele al proprio motto “Curvata, resurgo”, ogni volta seppe risorgere dai danni subiti.
Purtroppo, quello del 1794, durante la rivoluzione francese, si rivelò un vero e proprio sfacelo. I monaci furono costretti a fuggire; le strutture vennero distrutte e i terreni espropriati.
Soltanto nel 1887 le terre con i ruderi datati 1600 del monastero furono venduti da un laico alla comunità cistercense di Achel. Sorse così una nuova abbazia, col ritorno dei monaci.
Due anni dopo padre Zozime Jensen installò quello che ancora oggi è l’impianto produttivo monastico. E, chiaramente, riprese la produzione di birra in modo regolare, ma solo per soddisfare i consumi interni del monastero.
Il restauro del 1919 dovette risanare le ferite della grande guerra. La seconda guerra mondiale apportò ulteriori danni all’abbazia, e quelli riguardanti l’impianto di produzione furono riparati grazie all’aiuto dei mastri birrai di Scourmont. Intanto che la vendita della birra cominciava a diventare l’unica fonte di reddito per l’abbazia di Rochefort.
Nel 1949, per il successo della birra appunto, fu allestito un negozio addirittura nelle cripte della chiesa. Purtroppo il periodo felice non durò a lungo: il miglioramento della qualità e la vasta commercializzazione delle birre di Chimay mise in serie difficoltà la Brasserie Rochefort. Per cercare di limitare la forte concorrenza, l’abate chiese a Chimay di interrompere la vendita dei suoi prodotti nelle zone limitrofe a Rochefort. Una richiesta che non poté essere accolta in quanto l’abbazia di Scourmont aveva stipulato accordi con società esterne per la commercializzazione in tutto il Belgio.
Ai monaci di Rochefort non rimaneva che cercare di migliorare la produzione, e da Scormont mandarono in loro aiuto il professor De Clerk dell’Università di Leuven, che per un paio d’anni lavorò fianco a fianco coi frati di Rochefort.
Dopo vari studi, il Professore giunse alla conclusione che per affinare la produzione bastava riorganizzare i metodi di lavoro e migliorare l’igiene all’interno delle strutture.
Fu pertanto nominato nuovo mastro birraio padre Hubert Morsomme e mandato a Scourmont per affinare le tecniche e imparare i trucchi del mestiere.
Nel 1952 la birreria venne completamente rinnovata, e poté cominciare anche la commercializzazione. Ma a Rochefort si producevano ancora soltanto due birre: una, a uso esclusivo dei monaci e, l’altra, quella venduta, che sarà l’antenata della Rochefort 6 dallo sviluppo della Middel. C’era quindi bisogno di mettere a punto nuove ricette, potendo avvalersi della consulenza di Chimay e addirittura utilizzare il suo lievito, selezionato poco tempo prima da padre Theodore.
Nel 1953 vide la luce la Rochefort 6, seguita da La Merveille (“La Magnifica”, oggi Rochefort 10) e, nel 1955, dalla Spéciale poi divenuta Rochefort 8.
Successivi ammodernamenti, avvenuti nel 1960 e nel 1974, ci hanno consegnato una sala di produzione che è tra le più belle del Belgio. La chiamano “La Cattedrale” per le sue immense dimensioni (30×8 metri) e le altissime vetrate. All’interno, sono sempre in funzione i vecchi impianti del 1960. Mentre i tini sono di rame e, non come nella maggior parte dei birrifici, di acciaio col rivestimento di rame.
Il 29 dicembre 2010 uno spaventoso incendio distrusse molte strutture dell’abbazia, soprattutto quelle sostenute da travi in legno. Fortunatamente, non subirono danni né la Brasserie né i monaci.
Rispetto agli altri birrifici trappisti, quello di Saint-Rémy coinvolge un numero più elevato di frati, peraltro famosi per la loro riservatezza e stretta osservanza religiosa. Pertanto, anche se di ottima qualità, anzi con un tratto decisamente distintivo, le birre, poco pubblicizzate, non sono molto conosciute, e spesso si rivelano di non facile reperibilità. Negli ultimi anni si è registrato un notevole aumento della reputazione aziendale; la produzione comunque continua in quantità limitata, intorno ai 18 mila ettolitri annui, secondo il principio di lavoro caro ai monaci. Come in tutti i birrifici trappisti infatti, la vendita è finalizzata esclusivamente al sostentamento della comunità monastica, alla manutenzione delle strutture e al finanziamento di progetti a scopi benefici.
A Rochefort si producono tre birre trappiste, in stile belgian strong ale, con la medesima impronta di base: colore scuro e generosità di carattere. Fino al 1998 le bottiglie, da 33 cl, non venivano etichettate. I tre tipi si distinguevano per il colore del tappo a corona (rosso per la 6, verde per la 8 e blu per la 10). Oggi l’indicazione avviene anche tramite numeri, che si riferiscono approssimativamente alla densità del mosto secondo la scala Baumé in uso in Belgio fino a qualche anno fa. Nello stesso tempo, i numeri indicano le settimane che devono passare dall’imbottigliamento perché sia completa la maturazione della birra.
La ricetta è la stessa per i tre tipi: cambiano soltanto la gradazioner alcolica e la percentuale degli ingredienti utilizzati.
E, per gli ingredienti, vige la “regola del due”: due tipi di malto, Pilsner e Munich; due varietà di luppolo, Styrian Golding e Hallertau; due tipi di zucchero candito, chiaro e scuro; due ceppi di lievito di Rochefort.
L’acqua invece viene presa dalla sorgente Tridaine, posta a 42 metri sopra l’abbazia e portata al birrificio senza alcun impiego di pompe. La sua caratteristica è la durezza e, non subendo alcun trattamento, contribuisce decisamente, impedendo peraltro la formazione di acidità, al gusto particolare della birra. Purtroppo questa sorgente rischia di essere prosciugata per alcuni lavori di scavo che dovrebbero essere svolti da una multinazionale in una cava di calcare posta in zona La Boverie poco distante dall’abbazia. Per questo motivo i monaci hanno intrapreso una battaglia legale per fermare gli scavi.
Rifermentate in bottiglia, come tutte le trappiste, le birre presentano l’aspetto solo leggermente velato, in quanto lasciano il sedimento sul fondo della bottiglia almeno per la prima metà.
E, come tutte le birre belghe, in particolare la 8 e la 10, grazie alla loro gradazione alcolica elevata, possono essere conservate anche per cinque anni in un luogo fresco e buio. Durante questo periodo di maturazione le birre evolvono bouquet di aromi e sapori di grande complessità.
Rochefort Trappistes 6, trappista di colore ambrato con riflessi ramati a ricordo delle foglie d’autunno (g.a. 7,5%). Contraddistinta dal tappo rosso, è la più leggera delle tre. Viene brassata soltanto due volte all’anno e in quantità molto limitate (rappresenta appena il 5% della produzione totale, sui 1000 ettolitri), per cui risulta quasi introvabile, se non in alcuni locali di Rochefort. Comunque, trattandosi di un prodotto che soffre molto il trasporto, offre il meglio di sé bevuta sul posto. È la più antica della gamma, discendendo direttamente dalla birra che veniva prodotta negli anni Trenta. La carbonazione è decisamente alta; la schiuma ocra, abbondante, minuta, cremosa, ma non di lunga durata. L’olfatto si rivela molto complesso: i sentori aciduli di uva e mela verde, nonché quelli dalla vivacità acre e pungente di pepe bianco, vengono via via attenuati dalla dolcezza del caramello, della toffee, del miele d’acacia, della frutta secca; mentre, non appena la birra comincia a riscaldarsi, inizia a spirare anche il tepore alcolico. Il corpo rotondo viene alleggerito abbastanza dalla vivace effervescenza, nella sua consistenza oleosa. Il gusto non si rivela così impegnativo, ma esige rispetto per quanto propone. Subito sale in cattedra l’amabilità del malto torrefatto, della toffee, del caramello, dell’uvetta, del miele, dell’uvetta, dello zucchero candito, del biscotto al burro; e al luppolo, alla frutta tostata e alla polvere di cacao tocca il compito del bilanciamento, con il loro aspro amarore. Mentre, con l’arrivo in prossimità del traguardo, si leva una fresca nota di acidità agrumata. Solo nel finale l’alcol si decide a tirar fuori tutto il proprio potenziale; ma lo fa con garbo, anzi destrezza, a mo’ di farmaco che indora il contenuto, riscaldando cordialmente il palato. Le lunghe impressioni del retrolfatto sono morbide, vellutate, eppure insufflate di un amarognolo terroso e di frutta secca.
Rochefort Trappistes 8, trappista di colore marrone rossastro con riflessi ambrati (g.a. 9,2%). Contraddistinta dal tappo verde, più scura e corposa della 6, è sicuramente la più nota e diffusa della gamma, e non solo per la gradazione intermedia. Già, rappresenta da sola i 2/3 della produzione globale. Ultima nata, prese inizialmente il nome di Spéciale, perché brassata esclusivamente per un cliente importante. Poi, per il crescente successo, che addirittura l’ha portata a diventare (paragonabile a una Grand Cru) una delle birre trappiste più famose al mondo, la produzione è stata estesa a tutto l’anno. La carbonazione è piuttosto accentuata; la schiuma, di un beige chiaro, sottile, compatta, cremosa, durevole e aderente. Superfluo annotare che siamo in un campo olfattivo dall’intensità molto elevata e dalla finezza elegante. I leggeri sentori agrumati virano presto verso delicati profumi dolci, di malto e caramello; accolgono quindi ben volentieri spezie e vaniglia, cacao e malto tostato, i più svariati esteri fruttati (dalla pera ai fichi, dalla mela ai datteri, dalle prugne all’uva sultanina). E, man mano che la birra comincia a riscaldarsi, sono lì in agguato gli aromi di rum e coca. Il corpo, da medio a pieno, si presenta in una consistenza oleosa tutt’altro che untuosa, anzi liscia e morbida a mo’ di seta. Nel gusto, l’importante gradazione alcolica viene sminuita dalla complessità dei sapori, con note speziate e di liquirizia che si mescolano armoniosamente con malto biscotto, banana matura, caramello, marzapane, uva passa, marmellata di albicocche, sotto l’egida equilibratrice del carattere frizzante della birra, dell’amarore del miele di castagno e della frutta secca, del lieve acido delle tostature. La prolungata corsa del finale lascia il palato compiutamente asciutto e pulito, piccante e alcolico. Mentre il retrolfatto, in una non men lunga persistenza, non lesina certo le sue cordiali suggestioni di frutta sotto spirito. Non così complessa ed equilibrata quanto la 10, anche la 8 può senz’altro essere considerata un’ottima birra da meditazione.
Rochefort Trappistes 8 Cuvée Spéciale, versione natalizia della 8, con le seguenti variazioni: tappo sempre verde, ma di sughero; etichetta diversa di anno in anno, di solito raffigurante Babbo Natale, comunque sempre in tema natalizio; confezione magnum da 1,5 l che, teoricamente, dovrebbe garantire un migliore invecchiamento. Con un’accurata ritappatura infine, la birra rimane inalterata per diversi giorni.
Rochefort Trappistes 10, trappista di colore marrone scuro con lievi riflessi rosso carminio (g.a. 11,3%). Contraddistinta dal tappo blu, è la più scura, la più ricca e la più alcolica delle tre. Sulla rigorosa base dello stile trappista, inserisce i caratteri tipici di una strong dark ale e la densità e la complessità di un barley wine. Sicuramente è una delle migliori birre al mondo. Con una moderata effervescenza, la schiuma caramello sgorga abbondante, a grana fine, cremosa, stabile e aderente. L’olfatto non è certo esplosivo, e nemmeno tanto pronunciato, ma di straordinaria complessità. Profumi di pera e banana matura, di frutta secca e ciliegia sciroppata, di caffellatte e cioccolato fondente, di liquirizia e scorza d’agrumi, di grano tostato e biscotti appena sfornati, sono miscelati “sapientemente”, senza che alcun elemento si accavalli con l’altro, lo disturbi o cerchi di prevaricare. E, man mano che la birra si riscalda, si percepiscono esteri di alcol avvolti da sentori di legno umido. Il corpo, medio-pieno, presenta una consistenza quasi oleosa. Ben coperto, perfettamente bilanciato dagli aromi, nell’impatto con il palato, il grado alcolico elevato si rivela una tenera carezza, che intriga, riscalda i sensi. Il gusto, all’imbocco morbido, aumenta man mano d’intensità, creando uno spettro ampio, speziato, leggermente acre e piccante; seguono note di cacao e prugna matura; chiude la lunga corsa il malto, in una connotazione di pane fresco appena sfornato. Ovviamente l’amaro, con tocchi di erbe a base di luppolo, rimane alla finestra, o quasi, lasciando ai sapori maltati e fruttati la loro libera espressione. Nel finale invece il malto diventa sorprendentemente secco, assumendo forme amarognole e affumicate. Il retrolfatto, che esagera nella sua persistenza, non si limita poi tanto nemmeno in ampiezza: al calore etilico che riscalda ormai senza più ritegno, sfilano, in un’atmosfera d’irresistibile dolcezza, impressioni di frutta matura, cioccolato, liquirizia, malto, zucchero candito, lievito speziato. Conservata correttamente, in posizione verticale e in luogo buio e fresco, questa birra ha una straordinaria evoluzione di gusto. Quanto al tempo di conservazione, il birrificio parla di cinque anni, qualcuno va invece molto più avanti. In ogni modo, qual eccellente birra da meditazione, ha il suo proprio bicchiere, a forma di tulipano, che consente il massimo sviluppo degli aromi.