Tratto da La birra nel mondo, Volume II, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Golden, Colorado/USA
Adolph Kohrs, originario di Barmen (Regno di Prussia) e con una buona esperienza brassicola maturata presso diverse fabbriche, aveva solo 21 anni quando, nel 1868, s’imbarcò ad Amburgo e atterrò a New York come clandestino. Cambiò quindi il cognome in Coors e, dopo poco, si trasferì a Chicago.
Si adattò ovviamente a tutti i lavoretti che trovava. Ma, l’anno successivo, era capo della fabbrica di birra di John Stenger, a Naperville, nell’Illinois.
Nel 1872 lasciò Naperville e si trasferì a Denver, dove fece solo per un mese il giardiniere, in quanto ebbe la possibilità di entrare come socio nella ditta d’imbottigliamento di John Staderman. Nello stesso anno rilevò tutta l’attività.
Nel 1873, insieme al pasticciere Jacob Schueler, acquistò, a Golden City, una conceria inattiva e la trasformò in birreria, Golden Brewery. L’anno dopo in Colorado, tra valli e picchi delle montagne Rocciose, a dissetare pionieri e minatori, ci pensava la Golden Beer, una birra in stile pilsner, la cui ricetta era stata acquistata da un immigrato ceco, William Silhan.
Nel 1880 Coors comprò la quota del socio e ribattezzò l’azienda col nome di Adolph Coors Golden Brewery.
Fino al 1916 gli affari andarono benissimo per le Golden Beer. Poi arrivò il proibizionismo; ma la Coors non si perse d’animo. Insieme ai tre figli maschi (Adolph jr., Grover e Herman), anche per sfruttare l’argilla di Golden, Adolph aveva creato la Adolph Coors Brewing and Manufacturing Company, che comprendeva Herold Cina e altre iniziative. Pertanto, mentre la birreria iniziò a fabbricare latte maltato (Coors Malted Milk) e una bevanda analcolica (Manna), a portare avanti la baracca in quegli anni bui, ci pensò la Coors Porcelain, creata come divisione distaccata della holding Coors e che, nel 2000, diventerà CoorsTek.
Purtroppo, nel 1929, Adolph Coors si suicidò, buttandosi dalla finestra del Cavalier Hotel, a Virginia Beach. E, pare, proprio per colpa del proibizionismo, che stava rovinando i suoi affari.
Comunque, la ripresa si rivelò pressoché soddisfacente. Ma la Coors era ancora una birreria di rilievo regionale; le mancava qualcosa per l’espansione in campo nazionale.
Nel 1959 fu tra le prime aziende a impiegare su larga scala la lattina in alluminio con apertura a strappo, vantaggiosa per il trasporto e pratica nell’uso; non solo, unica tra i grandi produttori, mise al bando la pastorizzazione. Negli anni Sessanta ebbe la trovata vincente, con il lancio della Banquet Beer. Anche perché validamente esaltata dall’intrigante immagine dell’acqua pura delle Montagne Rocciose, la birra scatenò una vera e propria ondata di fanatismo collettivo.
La Coors era ormai uno dei colossi birrari americani. La domanda dei suoi prodotti veniva anche dall’estero, e a ritmo incalzante. Lo stabilimento di Golden, vicino a Denver, pur essendo il più grande del mondo con una capacità produttiva di 20 milioni di barili all’anno, non bastava più. Nel 1987 venne messo su un altro impianto in Virginia, a Shenandoah; e, nel 1990, fu acquistata la moderna fabbrica di Memphis, nel Tennessee, costruita dalla Stroh nel 1985.
Terza grande impresa degli Stati Uniti, la Coors si era limitata a operare quasi esclusivamente sul mercato interno. Poi, nel 2003, riuscì ad acquisire il controllo di importanti marchi britannici (Carling, Caffrey’s, Stones, Worthington’s) dando vita a quella che è oggi la Molson Coors UK.
Decisiva la svolta del 2005, anno in cui, sull’esempio della Scottish & Newcastle, la casa statunitense avrebbe cominciato ad apporre sulle bottiglie avvertenze per la salute. Ai primi di febbraio venne annunciata la fusione con la canadese Molson. Seguì la compera di una piccola azienda nell’Ontario, la Creemore Springs Brewery, allo scopo di fabbricarvi birre di lusso da commercializzare nella fascia di prezzo più alta. Mentre nel 2006, per l’andamento insoddisfacente, fu ceduta alla FEMSA, la brasiliana Kaiser Cervejarias acquistata nel 2002.
Seguì la razionalizzazione produttiva, che portò alla dolorosa chiusura dello stabilimento di Memphis, addirittura ampliato nel 2000 con una spesa di 70 milioni di dollari. Infine, nel 2007, per cercare di contrastare lo storico predominio negli Stati Uniti della Anheuser-Busch, la Coors costituì una joint venture con la Miller, chiamata appunto MillerCoors, con sede a Chicago.
Oggi, insieme alla Molson, la Coors realizza più di 117 milioni di ettolitri annui, ponendosi al quinto posto nella graduatoria mondiale, con una quota di mercato del 4,9%. Venendo invece ai suoi prodotti, c’è da dire che la Coors utilizza orzo e luppolo coltivati nelle fattorie aziendali. L’acqua è quella delle Montagne Rocciose. Le birre non vengono pastorizzate, bensì trattate con il metodo della filtrazione sterile, il che conferisce una particolare fragranza, anche se riduce la durata media di conservazione. Quanto invece all’inarrestabile successo… eh, sì! il merito va all’oculata politica commerciale che, nella sua lungimiranza, ha saputo anche sfruttare l’efficace supporto delle più avanzate strategie di marketing. Non è infine da dimenticare la Adolph Coors Foundation, nata nel 1975 per sostenere iniziative all’interno dello stato del Colorado.
Coors Banquel Beer, lager di colore oro chiaro (g.a. 5%); conosciuta anche come Coors Original. È la famosa Banquet Beer, che riprese la lager del 1873 diventando il marchio di punta dell’azienda. La carbonazione è da bassa a media; la spuma, non ricca tanto meno di lunga durata. L’aroma si libera muschiato, granuloso, con deboli sentori floreali, di mais, limone, luppolo terroso. Il corpo leggero presenta una trama alquanto acquosa. Il gusto defluisce nella massima semplicità, proponendo note di frutta, malto, erbe aromatiche e un pizzico finale di amarore. Il retrolfatto, di media persistenza, eroga impressioni di grano molto asciutte.
Coors Light, lager di colore dorato pallido (g.a. 4,2%); la seconda lager più venduta dell’azienda. Venne proposta nel 1978. A basso contenuto calorico, diventò comunemente nota come Silver Bullet (cioè “pallottola d’argento”) per la rifinitura della lattina, in semplice alluminio. Con una moderata carbonazione, la spuma fuoriesce vaporosa ma di rapida dissipazione. L’aroma è piuttosto debole, con sentori morenti di grano, fieno, mais, e un accenno di limone. Il corpo leggero presenta una trama decisamente acquosa. Il sapore non si esprime tanto meglio dell’olfatto, con note dolciastre, fruttate e solo un pizzico di amarore. Anche il finale arriva piuttosto amaro, ma è un amaro erbaceo che si asciuga lentamente nel retrolfatto.
Coors Extra Gold, premium lager di colore giallo paglierino (g.a. 5%); leggermente più ricca di malto della Light. Viene offerta in una caratteristica bottiglia long neck con appariscente etichetta dorata e tappo svitabile. L’effervescenza, quantunque decisa, genera una schiuma fine di breve durata. L’aroma si schiude intenso, con un malto però non particolarmente tostato. Dal corpo leggero, e di trama acquosa, emerge un gusto pulito, piuttosto neutro, che, dopo l’asprezza iniziale, si stempera in un vago dolciastro. Il retrolfatto, soltanto sfiorato dall’amaro del luppolo, è la fievole eco di un finale già troppo poco aromatico. Si tratta insomma di un prodotto che non può certo spiattellare un vero carattere, con malto e luppolo a malapena riconoscibili. Più che altro, date le sue virtù rinfrescanti, è indicato per spegnere la sete.
AC Golden Barrel Aged Russian Imperial Stout, imperial stout di colore nero profondo (g.a. 13%); invecchiata per 11 mesi in botti di whisky. Con una moderata carbonazione, la spuma marrone emerge minuta, cremosa e di sufficiente durata. L’aroma si libera quasi stratificato: malto tostato, caramello, vaniglia, cioccolato fondente, cocco, rovere, whisky, bourbon. Il corpo, medio-pieno, ha una consistenza sciropposa. Il gusto è ricco, denso, vigoroso, e richiama le sensazioni avvertite all’olfatto; ma vi aggiunge subito piacevoli note di spezie, fumo, noce di cocco, e tanta, tanta dolcezza alcolica. Il finale arriva avvolto in un’impressione di cacao amaro. Un agro malto torrefatto segna la lunga persistenza retrolfattiva.
Nel 1956 chiuse, nella contea di Wexford, la Lett’s Brewery di Enniscorthy, l’ultima piccola birreria indipendente in Irlanda. Era stata fondata nel 1864 da George Killian Lett in un ex convento francescano risalente al 1460 ma che già dal 1750 non aveva più alcuna identità.
Nel 1981 i discendenti del fondatore consentirono alla Coors di produrre su licenza la famosa Ruby Ale di George Killian Lett. Da annotare però che già all’inizio del 1960 questa birra, sempre su licenza, veniva prodotta in Francia dalla Pelforth.
Geoge Killian’s Irish Red, irish red ale di colore rosso rame pallido (g.a. 4,9%). Rispetto all’interpretazione francese, Pelforth George Killian’s, presenta un colore più intenso e scuro, ma il sapore molto meno deciso. Con una morbida effervescenza, la spuma emerge densa, cremosa e di buona ritenzione. L’aroma è improntato al malto torrefatto, con tenui sentori di caramello, pane, lievito terroso, zucchero di canna. Il corpo, da leggero a medio, ha una tessitura abbastanza acquosa. Il gusto, in buon equilibrio tra malto tostato e amaricante, propone una consistenza dolciastra ma per nulla stucchevole, anzi piacevole, rinfrescante, con una lunga nota finale di erbe aromatiche. Il retrolfatto mostra sufficiente persistenza, all’insegna di una complessa dolcezza leggermente tostata.
Nel 1995 fu lanciata una serie di birre speciali con etichetta Blue Moon. Tra esse:
Blue Moon Belgian White Ale, raffinata witbier secondo la tradizione belga, di colore giallo smagliante e dall’aspetto opalescente (g.a. 5,4%). Con un’effervescenza abbastanza sostenuta, la schiuma sgorga sottile, fitta, persistente. L’aroma è tipicamente di agrumi e speziato. Il corpo tende al leggero, con una trama piuttosto cremosa. Il gusto si rivela denso, pastoso, con una piacevole punta di acido e note di arancia amara. Il finale ripropone la leggerezza del corpo: e, in bocca, resta un’asciuttezza rinfrescante.