Tratto da La birra nel mondo, Volume III, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Plzeň/Repubblica Ceca
Nel 1290 il re Venceslao II fondò la città di Plzeň alla quale, cinque anni dopo, concesse la licenza di birrificazione: pertanto, tutti i borghesi potevano produrre e vendere birra.
Con la morte di Venceslao III nel 1306, si estinse la dinastia dei Přemyslidi. Nel 1310 il regno di Boemia passò alla casata dei Lussemburgo, finita anch’essa alla morte di Sigismondo I nel 1437. Intanto, la sanguinosa rivolta su tutto il territorio boemo, in seguito alla condanna al rogo nel 1415 del riformatore religioso Jan Hus, era sfociata nel movimento hussita che animerà la Boemia fino alla sottomissione, nel 1526, al dominio asburgico di Ferdinando I con la perdita di ogni forma di autonomia.
Soltanto nel 1501 viene menzionato per la prina volta il birrificio cittadino. Comunque, ancora all’inizio del secolo XIX, a Pilsen (nome adesso tedesco di Plzeň), come del resto ovunque, la birra risultava di pessima qualità. Si produceva sempre a fermentazione alta, proponendo bevande scure e torbide.
La situazione finì per diventare insostenibile: da una parte, l’insoddisfazione dei cittadini; dall’altra, l’invasione delle birre tedesche che andava precludendo ogni sbocco all’industria locale. Nel 1839 un gruppo di borghesi presentò alle autorità la richiesta di aprire un nuovo birrificio municipale, Bürgerbrauerei.
Il giovane architetto Martin Stelzer ebbe l’incarico di viaggiare in Europa scegliendo le idee migliori per il progetto di una fabbrica dotata delle attrezzature e dei sistemi tecnologici e industriali più moderni. Al ritorno, Stelzer mise sulla carta il risultato dei suoi studi. E cominciarono i lavori, sulla sponda del fiume Radbusa, con a disposizione roccia arenaria per scavare facilmente grandi gallerie di conservazione e falde idriche a cui attingere acqua dolce.
Nel 1842 era bell’e pronto lo stabilimento più moderno dell’epoca. Stelzer fece arrivare dalla Baviera Josef Groll, un mastro birraio di 29 anni che sapeva tutto sulla bassa fermentazione con cui venivano ormai prodotte a Monaco, dalla Spaten di Gabriel II Sedlmayr, le birre scure.
Groll era un tipo piuttosto difficile, e lo lasciarono fare. Il tedesco si fece spedire dalla Baviera il lievito di bassa fermentazione, scelse un malto molto chiaro ottenuto dall’orzo migliore della Boemia, il luppolo più pregiato di Žatec e, con l’acqua povera di sali, cominciò la produzione come aveva imparato nella sua terra, all’insegna di una gradazione media: impasto intenso ma non troppo lungo, triplice cottura del mosto, luppolizzazione sostenuta, fermentazione fredda e lenta, lunga maturazione.
Non si sa se Groll avesse voluto quella birra o se essa fosse venuta fuori per caso. Fatto sta che non era la lager marrone scuro e torbida monacense. L’aspetto si presentava limpido; il colore, dorato intenso, aveva una tonalità tendente al verde.
Era l’invenzione del 5 ottobre 1842, a cui avevano contribuito diversi fattori.
L’acqua del distretto di Bubenc, dove si trovava la fabbrica, vantava una dolcezza particolare. Si sa che il calcare tende a trasferire il colore dal malto alla birra: la sua scarsità rende pertanto il prodotto più chiaro e non torbido. Anche l’orzo locale, più povero di proteine, favoriva una chiarezza maggiore.
Proprio in quell’anno inoltre i bicchieri di vetro, per i quali la Boemia andava famosa con la sua tipica produzione, cominciavano a soppiantare i vecchi boccali di legno, di ceramica, di terracotta, di metallo, perfino di cuoio. Naturalmente la trasparenza del vetro dava adesso importanza anche all’aspetto e al colore della birra.
E non si trattava soltanto di aspetto e di colore. La bevanda aveva fatto anche un notevole salto di qualità. La varietà di luppolo locale Saaz conferiva un aroma complesso, fiorito e speziato; nonché il gradevole finale amaro. Il malto boemo, eccezionalmente chiaro, donava al gusto una pienezza morbida, deliziosa.
Quella pietra miliare nella storia della birra ebbe ovviamente uno straordinario successo anche oltre i confini dell’Impero e, con il nome di Pilsener (anche accorciato in Pilsner o Pils), raggiunse ogni angolo della terra. Inevitabilmente cominciarono le imitazioni, alcune abbastanza vicine all’originale, altre molto più leggere e con l’aroma meno pronunciato di luppolo: sempre però, anche se con caratteristiche differenti tra loro a seconda del paese di produzione e talvolta addirittura delle diverse regioni, con la medesima denominazione, Pilsener.
Nel 1859, per mantenere l’esclusiva sul nome, la Bürgerbrauerei brevettò il marchio presso la Camera di Commercio di Pilsen, Pilsner Bier. Nel 1898, per sottolineare la pretesa di essere la fonte originale della birra Pilsner, il marchio divenne Pilsner Urquell.
Intanto, proprio per il nome, la Bürgerbrauerei era entrata in contrasto con la tedesca Bitburger, che nel 1883 aveva lanciato la Simonbräu Deutsch Pilsener. Alla fine, nel 1911, adì le vie legali.
Nel 1913 l’Alta Corte Tedesca si pronunziò in maniera perentoria: il termine pilsener andava inteso, non col significato “di Pilsen”, bensì come nome di uno stile; e chiunque poteva utilizzarlo producendo birre di tale tipologia. Da allora chiaramente andò perdendosi il legame della pilsener con la città boema.
Ma solo la pilsner prodotta a Pilsen ha il diritto di fregiarsi del distintivo “Urquell” (in tedesco, “fonte originaria”). E la pilsner originale oggi, in ceco, si chiama Plzeňský Prazdroj, lo stesso nome della fabbrica, come vedremo più avanti.
In ogni modo, la birra di Pilsen nel 1856 veniva servita nei locali di Vienna, tre anni dopo in quelli di Parigi. Nel 1874 era arrivata addirittura in America. Alle soglie della grande guerra, l’azienda produceva un milione di ettolitri l’anno.
Nel 1918, con la fine dell’Impero asburgico, il birrificio prese il nome ceco, Mĕšt’anský pivovar.
Con la fusione, tra il 1925 e il 1933, delle diverse fabbriche, a Plzeň erano rimaste soltanto due aziende: la Mĕšt’anský pivovar e la Plzeňské akciové pivovary (PAP), in cui l’altra aveva la maggioranza delle azioni.
La Plzeňské akciové pivovary fu fondata, come società a capitale misto, nel 1869 da un gruppo di imprenditori di lingua tedesca, tra cui Emil von Škoda (che già quattro anni prima aveva creato l’omonima industria meccanica e siderurgica), lusingati dal successo della Pilsner Bier.
Durante la grande guerra lo stabilimento si trasferì in prossimità della Bürgerbrauerei. Mentre, dopo il secondo conflitto mondiale, il nome fu cambiato in Gambrinus, un omaggio al grande bevitore di birra Jan Primus che aveva sposato una discendente della casa reale boema.
Nel 1945 il governo comunista si appropriò di entrambe le fabbriche; l’anno successivo, le nazionalizzò e fuse nell’azienda statale Plzeňské pivovary. Nel 1956 ripresero le esportazioni, facendo entrare nel paese valuta pregiata.
Nel 1964 fu creata la società Zapadočeské pivovary (fabbriche di birra della Boemia occidentale) con sede a Plzeň. Mentre, per la proprietà dei marchi e il contatto con i clienti all’estero, nasceva la società nazionale Plzeňský Prazdroj.
Dopo la caduta del comunismo, alla fine del 1989, il birrificio divenne una società per azioni e, nel 1994, prese il nome della birra più famosa, Plzeňský Prazdroj (Pilsner Urquell). Nel 1999 rilevò la Pivovar Radegast e la Pivovar Velké Popovice (entrambe trattate alle rispettive voci).
Sempre nel 1999, tutto il conglomerato fu rilevato, a sua volta, da South African Breweries, poi SABMiller. E, l’anno successivo, la Plzeňský Prazdroj diventava il più grande produttore ed esportatore di birra ceca, con un flusso addirittura superiore a quello della Budweiser Budvar.
Infine, con l’acquisto, nel 2016, della SABMiller da parte della Anheuser-Busch InBev, la Plzeňský Prazdroj andò alla giapponese Asahi Breweries Europe.
Superfluo sottolineare che, nell’ambito del gruppo, il marchio Pilsner Urquell è il più conosciuto a livello internazionale.
Quanto alla qualità, la fabbrica cercò sempre di mantenere i metodi di produzione tradizionali, lasciando poi maturare la birra per un periodo di tre mesi in enormi botti di legno.
Alla fine però, tra il 1965 e il 1985, anch’essa dovette cedere all’estesa modernizzazione richiesta dall’economia di mercato: cisterne di fermentazione verticali, impiego massiccio di acciaio inossidabile, e… tempi brevi nella preparazione. Chiaramente il salvabile era stato salvato.
Viene sempre estratta dalle stesse falde la preziosissima acqua dolce. Il malto, è esclusivamente della Moravia; il luppolo, quello nobile di Žatec; il lievito, la specie indicata nella Repubblica Ceca come “N. 1”. Addirittura, per poter confrontare la versione moderna con quella originale, sono stati mantentuti alcuni impianti che producono piccoli quantitativi secondo il vecchio stile.
Indubbiamente la Pilsner Urquell rimane la migliore lager del mondo: gusto deciso, sentori aromatici inconfondibili, un’eccezionale versatilità che la rende ideale in ogni occasione di consumo. Anche se non si può ignorare che alcune sue caratteristiche non sono più quelle di una volta. Al naso e al palato, le note di luppolo iniziali si perdono presto in una sorta di anonimato.
E, come tutte le grandi imprese, il suo produttore non poteva lasciarsi sfuggire una ghiotta occasione per la politica strategica, legando il proprio nome a uno dei più importanti festival del mondo, Umbria Jazz, di cui dal 2006 divenne sponsor principale: l’opportunità insomma per posizionare e inserire il proprio marchio nei locali della notte.
Pilsner Urquell, czech pilsner di colore giallo dorato carico (g.a. 4,4%). È chiamata il “modello di metro” tra le birre. Tutti le altre pilsner sono un tentativo, bene o mal riuscito, di copiare l’originale, a tutt’oggi elaborata secondo il Reinheitsgebot e dalla stessa (assolutamente invariata) ricetta del 1842. La carbonazione abbastanza spinta genera una sottile e densa corona di schiuma bianca dalla pregevole tenuta nonché buona allacciatura. Sotto l’egida del Saaz “sapientemente” profuso, la finezza olfattiva esprime eleganti profumi floreali, agrumati, vegetali, erbacei, intanto che dal sottofondo spirano, non poi tanto timidamente, sentori di malto, lievito, grano, biscotto, frutti di bosco. Il corpo leggero tende al medio, in una consistenza acquosa. Il gusto, morbido, pulito, defluisce piacevolmente amaro, in armonia con la lieve dolcezza del malto, all’inizio non tanto propenso a rinunziare al ruolo di protagonista. Al termine della lunga corsa, prende il sopravvento un luppolo fresco e asciutto, che lascia nel retrolfatto un’aspra suggestione amarognola, un chiaro invito a proseguire nella bevuta, peraltro estremamente briosa e scorrevole.
Pilsner Urquell 3.5%, czech pilsner di colore dorato pallido (g.a. 3,5%). È la versione più leggera ed economica della Pilsner Urquell, destinata al mercato locale: per niente rappresentativa dello stile di appartenenza. La carbonazione è meno sostenuta; la spuma bianca, spessa, compatta, persistente. L’aroma si esprime tenue, delicato, con sentori floreali, erbacei, di malto, tostature, biscotto quasi burroso, miele, agrumi, pane di segale, fieno, luppolo terroso e lievemente speziato. Il corpo appare molto sottile, e di tessitura acquosa. Un malto granuloso, secco e pulito, supportato dal fondo di lievito fruttato, segna la consistenza dolciastra del gusto pressoché indisturbato. Una decisa nota di erbe aromatiche precede, nel finale, l’arrivo del Saaz che sprigiona un piacevole amarognolo. Anche il corto retrolfatto deve al luppolo ceco le proprie impressioni asciutte e rinfrescanti.
Gambrinus Premium Svetlý Ležák 12°, czech pilsner di colore dorato chiaro (g.a. 5%). Versione pregiata, prodotta in particolare per l’estero. La carbonazione è alta, e anche un po’ tagliente; la schiuma bianca, spessa, pannosa, di buona allacciatura. L’aroma si schiude con eleganza, pulizia, intensità, a base di malto granuloso, erbe, resina, caramello, agrumi, fieno, pane di segale, luppolo floreale, lievissime spezie. Il corpo, medio-leggero, ha una tessitura piuttosto acquosa. Il gusto si propone in una consistenza agrodolce fin dall’inizio, con caramello bruciato, miele, marzapane, paglia, e, in sottofondo, note burrose, erbacee e floreali. Una rinfrescante punta di acidità compare in prossimità del traguardo. E la corsa, di notevole durata, termina asciutta e di un amarore pronunciato, che si scioglie lentamente, nel retrolfatto, in morbide, cremose, invitanti, suggestioni.
Gambrinus Original 10° (Desítka), czech pilsner di colore giallo dorato (g.a. 4,3%). È la birra per il mercato interno, con larga diffusione nazionale come dissetante quotidiano a basso costo. Pastorizzata, viene offerta in bottiglie e in lattine. Per i pub invece è stata sostituita dalla Gambrinus Nepasterizovaná 10°, ovviamente senza pastorizzazione. La carbonazione tende decisamente alla vivacità; la schiuma bianca si rivela alta, cremosa, durevole e aderente. Impressionante la delicatezza dell’aroma, con luppolo fiorito, malto, lievito, caramello, erbe fresche, cereali, grano, limone. Il corpo, da leggero a medio, ha una consistenza tipicamente acquosa. Il gusto, inizialmente dolciastro, con qualche nota di burro, mette in seguito la sua solida base di malto a disposizione di un luppolo erbaceo che porta a termine la corsa in assoluta secchezza e con una fresca punta di acidità. Da parte sua, il retrolfatto eroga sfuggenti suggestioni polverose e timidamente pepate.
Plzensky Prazdroj Klasik, czech pilsner di colore giallo dorato chiaro (g.a. 3,8%). Con una carbonazione abbastanza sostenuta, la spuma, di un bianco sporco, erompe alta, compatta, di eccellente tenuta. Un malto granuloso e un delicato luppolo fiorito compongono il gradevole bouquet olfattivo, nel quale trovano posto, in secondo piano, tenui sentori di mais, esteri fruttati, erbe, miele, fieno. Il corpo è sottile, e di consistenza acquosa. Il gusto inizia con la dolcezza del malto; ma presto prende note amarognole di un luppolo terroso che apporta anche, verso il traguardo, una fresca punta di acidità. Il finale arriva in piena secchezza, e si esaurisce bruscamente. Il retrolfatto, appena accennato, è un pot-pourri amaro di impressioni floreali, erbacee e fruttate.