Tratto da La birra nel mondo, Volume II, di Antonio Mennella-Meligrana Editore
Lovanio/Belgio
In francese Louvain e in nederlandese Leuven, Lovanio è un centro culturale e industriale, a una trentina di chilometri da Bruxelles, che mezzo secolo fa contava poco più di 34 mila abitanti. Oggi, ospita la prima multinazionale del mondo nel campo birrario.
La Brouwerij De Horen di Lovanio è citata dai registri dei duchi di Brabante già nel 1366. Dal 1537 vendeva i suoi prodotti alla celebre Università Cattolica fondata nel 1426 da Alberto d’Asburgo. Dopo vari passaggi di proprietà, nel 1717 fu rilevata dal mastro birraio Sebastiaan Artois, diventando Brouwerij De Horen Artois.
Col nipote di Sebastiaan, Leonard, l’azienda diede inizio alla sua espansione. Acquistò, nel 1787, la Fransche Kroon e, nel 1793, la Prins Karel, entrambe di Lovanio. Mentre, al traguardo dei 71 mila ettolitri annui, poteva ben considerarsi tra le più importanti birrerie dell’Impero d’Austria.
Nel 1892 fu lanciata la Artois, una lager tipo pilsner, “progenitrice” della moderna Stella Artois.
Nel 1901 nacque la Brouwerij Artois. Dopo poco ne divenne direttore generale il professor Verhelst, direttore dell’accademia della fabbricazione della birra all’Università di Lovanio, a cui va il merito della sopravvivenza e dello sviluppo della società nei tempi difficili che seguirono.
Completamente distrutta durante il primo conflitto mondiale, la fabbrica fu ricostruita di lì a pochi anni e nel 1930 riprese le esportazioni in tutta l’Europa, prima e poi, verso gli Stati Uniti. Mentre non si sa quando la Brouwerij Artois passò di proprietà di Philippe de Spoelberch.
A partire dal 1960, cominciarono le acquisizioni di diverse birrerie. Nel 1968, l’olandese Dommelsche. Nel 1973, la Brouwerij Ginder-Ale di Merchtem, fondata nel 1871 da Florentinus de Boeck. Nel 1974, un’altra olandese, la Hengelosche Bierbrouwerij di Hengelo, fondata nel 1879 da Herman Meijling e JH Bartelink e chiusa nel 1988.
Sempre nel 1988 la Brouwerij Artois si fuse, dando vita alla Belbrew, con un’altra azienda familiare, sua feroce concorrente di Jupille-sur-Meuse (oggi un quartiere di Liegi), da cui anche il nome di Brasserie Jupiler, accanto a Brasserie Piedbœuf. La fondazione infatti, avvenuta nel 1853, fu opera di Jean-Théodore Piedbœuf, di quei Piedbœuf arrivati a Jupille-sur-Meuse nel 1445 ma birrai dal 1256. Mentre, nel 1920, la fabbrica era stata acquistata da Albert van Damme.
Nel 1989 la neosocietà cambiò il nome in Interbrew. E, grazie anche ai buoni legami con la potente comunità finanziaria belga, iniziò subito, dal Belgio (dove risultava il principale produttore), uno straordinario processo di incorporazioni e acquisti.
La De Kluis (vedi Hoegaarden) e la Belle-Vue, rilevate rispettivamente nel 1989 e nel 1990, sono trattate alle relative voci. Fu quindi la volta della Brasserie Grade di Mont-Saint-Guibert; della Brasserie Lootvoet; della Loburg di Lovanio, fondata, quest’ultima, nella prima metà del secolo XIX.
Nel 1995, a fianco del già imponente stabilimento originario di Lovanio, ne fu costruito un altro di maggiori dimensioni. Mentre la vecchia fabbrica Piedbœuf continua a produrre la Jupiler. Sicché un gran numero di birre del gruppo, primo produttore anche in patria, vengono fabbricate in territorio belga.
Ma dal 1991 era cominciata anche la fase di progressiva espansione all’estero, con l’acquisizione di importanti marchi internazionali e la stipula di accordi commerciali strategici. La caduta della “cortina di ferro”, seguita dalla libera concertazione con i nuovi governi, consentì alla Interbrew di penetrare anche nell’Europa dell’Est, per dirigersi poi verso la Cina, la Corea del Sud. Mentre l’acquisto della canadese Labatt, nel 1995, le spalancava le porte del ricco mercato americano, ed essa diventava una multinazionale con entrambe le radici canadese e belga.
Infine, nel 2004, il grande evento: dalla fusione con la brasiliana AmBev, nacque il “gigante” euroamericano che divenne subito il primo produttore birrario del mondo. L’unione insomma di due potenze, una, in Europa, Asia e Nord America e, l’altra, in America Latina, con la creazione di un vero e proprio impero economico. Ma precisiamo che, all’atto della costituzione societaria, l’apporto patrimoniale della AmBev proveniva soltanto dall’America Latina.
Nel gennaio del 2005 il gruppo prese la denominazione ufficiale di InBev, per la quale fu anche coniato un nuovo logo. Nuova anche la sede amministrativa di Lovanio, accanto al glorioso stabilimento di produzione della Stella Artois: un palazzo, in tradizionali mattoni, progettato in modo che tutti gli uffici avessero almeno una finestra verso l’esterno. Particolare, questo, significativo della volontà aziendale di osservare il mondo, scrutare la minima mossa di mercato, e andare incontro al primo nuovo orientamento dei consumatori.
In linea di principio, la InBev non tendeva a una strategia estensiva. Chiaramente non si lasciava sfuggire le buone occasioni che si presentavano in qualsiasi parte del mondo. Così come era molto interessata ad acquisti in Cina, Russia e America Latina, mercati che lasciavano prevedere importanti aumenti di consumo della birra nell’immediato futuro.
Nello stesso tempo, portava avanti l’indispensabile, anche se non piacevole, politica di razionalizzazione, con la chiusura di fabbriche non strategiche e il taglio di costi poco utili. Nel 2005, per esempio, cedette a Coca-Cola la società Bremer Erfrischungsgetränke, acquistata dalla Beck nel 2002. Del resto la Germania non era proprio il paese in cui poter investire grossi capitali per imbottigliare la bibita americana.
Esaminiamo quindi la posizione della InBev nei vari paesi del globo terrestre alla metà del 2008.
Quarto produttore nei Paesi Bassi (Dommelsche, Arcense, Oranjeboom di Breda, città in cui aveva anche la sua sede olandese), saliva in terza posizione per importanza in Francia, con la Brasserie Sebastiaan Artois di Armentières, che produceva principalmente le marche belghe del gruppo per il mercato francese (la parigina Lutèce veniva invece fabbricata dalla Gayant di Douai). Ma, in Francia, si limita ormai a commercializzare i propri brand.
Anche in Gran Bretagna occupava il terzo posto, con la InBev UK (Bass, Tennent’s, Whitbread); posizione consolidata nel 2005, prendendo a commercializzare direttamente la Beck’s, dal 1987 distribuita invece dalla Scottish & Newcastle. Era invece secondo produttore in Germania, grazie agli acquisti in successione della Diebels, del gruppo Gilde-Hasseröder, della Beck e della Spaten-Löwenbräu, che formavano la InBev Germany con sede a Brema.
In Lussemburgo, deteneva il 45% delle azioni della Brasserie de Diekirch e il 33% de Les Brasseries Réunies Mousel & Clausen.
In Spagna, con la cessione del pacchetto, pari al 12%, della Damm acquistato nel 2002 dalla Interbrew, era rimasta sul mercato con i soli marchi Beck’s, Stella Artois e Franziskaner.
Nella ex Iugoslavia, controllava l’Apatinska, in Serbia, la Trebjesa, nel Montenegro, la Zagrebacka (al 50%), in Croazia, tutte in prima posizione; la Uniline, in Bosnia-Erzegovina.
Nella Repubblica Ceca, tramite la Bass, deteneva il controllo del gruppo Prague Breweries (Staropramen) e occupava la seconda posizione.
Controllava, in Bulgaria, la Kamenitza e la Astika, rilevate in successione nel 1995, con prima posizione; possedeva, in Ungheria, dal 1991 la Borsodi, che le permetteva il terzo posto e che, oltre alle marche locali, commercializzava anche i principali brand del gruppo di appartenenza.
Tramite la controllata SUN (acquisto completato al 99,8% nel 2005) era leader in Ucraina, dove questo gruppo operava sia con i marchi locali sia con alcune etichette primarie del gruppo internazionale di cui faceva parte. Scendeva alla seconda posizione in Russia (Ochakovoye, Zhigulewskoye; Rosar di Omsk, comprata nel 1999), posizione rafforzata nel 2005 con l’acquisizione al 100% della Tinkoff di San Pietroburgo. Ma in Russia era presente anche la SUN che, oltre a diversi marchi nazionali, fabbricava e distribuiva alcune etichette principali della InBev, produceva su licenza la Hoegaarden e stava diffondendo la Brahma Chopp della AmBev.
Quanto al nostro Paese, la filiale InBev, con sede a Gallarate, era la risultante di un processo evolutivo, partito dalla Bass italiana, per diventare successivamente, prima, Beck’s Italia, poi, Interbrew Italia e, infine, InBev Italia. Operava solo in chiave commerciale e occupava il terzo posto sul mercato nazionale, con poco più di 1,6 milioni di ettolitri annui (tutti importati) e una quota dell’8,7%.
In Romania invece, la divisione InBev era rimasta col vecchio nome, Interbrew Romania. Aveva sede a Bucarest e, oltre a produrre birre (terzo più grande produttore del Paese), ne importava anche varie marche. Era stata istituita, nel 1994, in seguito all’acquisto della Bergen e alla costruzione di una nuova fabbrica (ultimata nel 1995) a Blaj. Vi partecipava, al 50%, la Efes; ma la sua quota era stata riscattata nel 2006 dalla InBev.
In Cina, era dal 1985 che la InBev continuava a crescere. Al 2004, dopo l’acquisto, nel 1997, dell’80% di capitale della Nanjing e, nel 2003, del 30% nel gruppo KK nella provincia di Zhejiang, possedeva già 17 birrerie. Aveva comprato, nel 2005, parte del business birrario del gruppo Lion Nathan, a cui facevano capo 18 birrifici, tra cui Zhujiang e Hunan Debier; nonché il rimanente 70% del KK.
In Corea del Sud, con l’acquisizione della Hops Cooperative U.A., si era assicurato, nel 2004, il controllo della più importante birreria, la Oriental Brewing Company, della quale la Hops era azionista di maggioranza.
In India, aveva lanciato sul mercato la tedesca Löwenbräu, presto accompagnata dalla Stella Artois e dalla Beck’s. Nel Nepal invece, la Löwenbräu, in seguito a un accordo con la società che imbottigliava la Pepsi-Cola, Varum Beverages, veniva perfino prodotta.
In Africa, la InBev aveva fabbriche di proprietà dove produceva la sua gamma direttamente nel paese interessato. Aveva recentemente concluso accordi di compartecipazione sotto forma di joint venture con società locali del Nord. Dal 1923 poi, nella Repubblica Democratica del Congo, possedeva una quota di capitale nella Brasimba.
Nel 2004 aveva stipulato con la Lion Nathan una convenzione a lungo termine per la produzione e la distribuzione in Australia della Beck’s che, grazie a un’intesa precedente, era arrivata a rappresentare il 9% della birra nel Paese. Con la stessa azienda aveva firmato, l’anno dopo, un altro accordo per la commercializzazione di Leffe e Hoegaarden in Nuova Zelanda, prolungando un rapporto di collaborazione iniziato nel 2002 per la distribuzione della Stella Artois. E, a supporto dei propri marchi strategici, aveva già aperto, in Nuova Zelanda, otto Belgian Beer Café.
In Canada, era dal 1995 proprietaria della Labatt, che possedeva, a sua volta, la statunitense Latrobe Brewing Corporation e partecipava al 22% la FEMSA. Poi la holding messicana aveva riacquistato le proprie azioni e la Latrobe era stata venduta alla Anheuser-Busch. Quanto ai marchi Labatt Blue e Labatt Blue Light, nonché il brasiliano Brahma, la InBev USA continuava, collaborando da vicino con la Labatt, la commercializzazione e la vendita attraverso una rete distributiva separata.
Sempre riguardo al brand Brahma Chopp, c’è da ricordare il suo lancio anche in California e Florida dal 2005. Mentre la Stella Artois, dopo il successo ottenuto sul mercato argentino dalla fine del 2004, veniva ormai prodotta in Brasile, sotto stretto controllo del mastro birraio di Lovanio, dalla birreria AmBev di San Paolo.
Da febbraio 2007 era diventata importatore esclusivo per gli Stati Uniti di diversi marchi InBev (tra cui Beck’s, Bass Pale Ale, Stella Artois, Hoegaarden, Leffe), la Anheuser-Busch che, grazie ai suoi efficienti sistemi di distribuzione e di vendita, aveva fatto conoscere ampiamente i prodotti europei con lievitazione dei consumi.
Appariva dunque strabiliante il patrimonio da gestire, e incrementare: 125 stabilimenti per la birra e le bevande analcoliche e relative maestraenze nei vari continenti; la produzione e la commercializzazione di almeno 200 etichette; per non parlare degli accordi commerciali in più di 100 paesi.
Mentre era senz’altro interessante notare come un gruppo di levatura internazionale fosse controllato al 70% (il restante veniva trattato in diverse borse) da poche famiglie di azionisti belgi e brasiliani, i quali si erano addirittura impegnati con un patto di sindacato per il ventennio successivo.
E ora passiamo a luglio del 2008, quando un avvenimento epocale impressionò un po’ tutti, se non altro per la sua enorme portata, l’acquisto ovvero di un colosso su per giù delle stesse dimensioni, la Anheuser-Busch. La nuova società, Anheuser-Busch InBev, sicuramente non avrebbe avuto più rivali capaci di impensierirla. Tanta e tale era la sua “potenza” terrestre! Anche se, per ridurre la forte esposizione finanziaria con le banche determinata da una simile operazione a debito, doveva ricorrere ad alcune cessioni e ad altri assetti aziendali, come, per esempio, la vendita del 19,9% nella Tsingtao all’Asahi. Mentre, per ottenere l’approvazione dell’organismo antitrust degli Stati Uniti, dovette cedere, nel 2009, la Labatt USA a North American Breweries. Ugualmente, in Europa, fu costretta a vendere all’Asahi la Grolsch olandese, la Birra Peroni italiana e la Meantine Brewery inglese.
D’altra parte a fine 2007 la InBev aveva dovuto cedere il primato dei volumi alla SAB Miller. All’inizio dell’anno successivo la Heineken e la Carlsberg si erano spartita la Scottish & Newcastle. Il gruppo belga doveva dunque far qualcosa per riportarsi ai vertici della classifica mondiale, e lo fece alla sua maniera, ovvero alla grande, ponendo un distacco incolmabile nei confronti dei concorrenti. La produzione salì in tal modo a 370 milioni di ettolitri annui, con una quota del 21% sul totale del mercato mondiale birrario. La sede centrale del nuovo gruppo rimase a Lovanio, come rimase a Saint Louis il quartier generale per il Nord America e per il brand Budweiser.
A livello internazionale la InBev era concentrata sullo sviluppo di tre brand: Stella Artois, Beck’s e Brahma, considerati global brand (che, con la Budweiser, divennero quattro); gli altri, svolgevano il ruolo di regional brand. Un occhio particolare era rivolto alla marca brasiliana, destinata a diventare cosmopolita come le due etichette europeee e quella statunitense, portando in giro per il mondo lo stile di vita della sua terra.
Dal 1992 la InBev era entrata nel capitale del Grupo Modelo incrementando gradatamente la partecipazione fino al 50%. Ed ecco che, nel 2013, sistemate le regole della competitività richieste dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, la AB InBev portò a termine l’acquisizione del gruppo messicano. Questa operazione comportò la cessione a Constellation Brands, da parte del Grupo Modelo del proprio 50% nella Crown Imports LLC (joint venture per l’importazione e distribuzione sul mercato USA dei marchi Modelo); in compenso, fece della birra Corona il quinto global brand dell’AB InBev.
Ma non era mica finita! Un’autentica “bomba atomica” si abbatté, nel 2016, sul mondo brassicolo mondiale. Intanto che concludeva l’acquisto della belga Bosteels, la Anheuser-Busch InBev era freneticamente impegnata nella più grande acquisizione birraria di tutti i tempi, quella della SAB Miller. Al punto che il successivo acquisto dell’italiana Birra del Borgo (con una produzione di appena 12 mila ettolitri annui) passò inosservato nel mondo, benché rappresentasse un avvenimento storico per la nostra birra artigianale.
Il nome del megagruppo “stellare” divenne Anheuser-Busch InBev SA/NV, mentre diventarono sue divisioni la Interbrew International BV, con sede a Breda, e la AmBev SA del Brasile.
Inevitabilmente, c’era da superare di nuovo i vincoli posti dalle diverse autorità della concorrenza nelle varie regioni del mondo. E ciò comportò la dismissione di alcune aziende prima appartenenti alla SABMiller, con un grande sconvolgimento della struttura competitiva mondiale nel settore della birra. Negli Stati Uniti, per esempio, l’interesse dell’ex SAB Miller in MillerCoors fu ceduto alla Molson Coors. Le attività dell’Europa orientale (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, ecc.) andarono all’Asahi. In Cina, il 49% nella CR Snow fu rilevato da China Resurces Beer (Holdings) Co. In Africa, le varie attività di imbottigliamento e distribuzione di Coca-Cola furono cedute a Coca-Cola Company.
Prima della fusione con AmBev, Interbrew era la terza più grande società di produzione in tutto il mondo per volume, dietro alla SAB Miller, preceduta, questa, dalla Anheuser-Busch. Mentre occupavano, il quarto posto, la Heineken International e, il quinto, la AmBev. Dal mese di ottobre invece del 2016, il più grande produttore di birra al mondo è Anheuser-Busch InBev SA/NV. Seguono Heineken, seconda; CR Snow, terza; Carlsberg, quarta.
La sede centrale è a Lovanio. Altri uffici principali si trovano a New York, San Paolo, Saint Louis, Londra, Città del Messico, Johannesburg, Toronto, Buenos Aires.
La compagnia ha una quota di mercato globale che supera il 22%, con circa 410 milioni di ettolitri annui. I suoi circa 500 marchi sono distribuiti in 50 paesi.
In Italia invece, alla quota di mercato dell’8,7% detenuta fino al 1916 da AB InBev si sarebbe aggiunta quella del 19,2% della Peroni (di proprietà della ex SAB Miller) se questa azienda non fosse passata all’Asahi.
La quotazione primaria in borsa della compagnia è su Euronext Bruxelles. Inserzioni secondarie si trovano sulla messicana Stock Exchange, sulla Borsa di Johannesburg e sulla New York Stock Exchange.
E, per concludere, non ci rimane che una doverosa menzione. Nel 1974, su iniziativa del conte Alfred de Baillet Latour, direttore a Lovanio della Artois Brewery Company, sorse la Artois-Baillet Latour Foundation, che poi cambiò nome, nel 1995, in Interbrew-Baillet Latour Foundation e, nel 2005, in InBev-Baillet Latour Fund. Si tratta di un’organizzazione senza scopo di lucro che intende incoraggiare e premiare i risultati di eccezionale valore umano nelle arti e nelle scienze. Uno scopo perseguibile tramite premi o qualsiasi altro mezzo ritenuto appropriato dalla Fondazione. A tal uopo, nel 1977 fu istituito l’Artois-Baillet Latour Health Prize, prima assegnato periodicamente, dal 2000 ogni anno (di 250 mila euro), per lavori che abbiano contribuito al miglioramento della salute umana in specifici settori (cancro e malattie mataboliche, infettive, neurologiche, cardiovascolari).
Stella Artois, premium lager di colore paglierino chiaro (g.a. 5,2%); preparata con malto locale e aromatizzata con luppolo Saaaz. È il marchio principale della InBev: la lager più diffusa sul mercato belga e una delle lager più note nel mondo. Nata come birra commemorativa in occasione delle festività natalizie del 1926 (il nome era un’ispirazione alla stella di Natale appunto), si presenta oggi con un nuovo look molto raffinato, dall’elegante sfumatura dorata intorno all’etichetta ma conservando gli elementi tipici del logo. L’effervescenza media sviluppa una generosa spuma bianca, fine e di notevole tenacia e aderenza. L’aroma è alquanto debole, ma molto equilibrato, di malto e di luppolo: in evidenza, la dolcezza della crosta di pane, per il primo e per il secondo, l’amaro secco del fieno appena tagliato. Il corpo rotondo, di trama acquosa, ha buona morbidezza, con la vivacità che si attenua pian piano consentendo la piena percezione delle caratteristiche organolettiche. Il gusto si snoda asciutto, discretamente amaro e con lieve orientamento all’acido. Il finale luppolizzato dura poco, e fa posto alla sufficiente persistenza retrolfattiva che dispensa suggestioni di malto, frutta, lievito, agrumi. Si tratta di un prodotto dal carattere non certo particolare, però raffinato e leggero, piacevolmente dissetante.
Loburg, premium lager di colore dorato spento (g.a. 5,7%); in stile danese. Fu creata nel 1977 come variante della Stella Artois, in risposta alla grande popolarità dei prodotti scandinavi. Con una media effervescenza, la spuma non ha particolare omogeneità e consistenza. Si rivela invece attraente la finezza olfattiva, dagli aromi di lievito, cereali, luppolo. Il corpo rotondo possiede un’elegante fluidità, in una trama fra oleosa e acquosa. Il gusto è piacevole, con l’amaro ben percettibile ma stemperato da un fragrante tocco di dolcezza biscottata. Il finale, piuttosto corto, introduce una ricchezza retrolfattiva che, nella sua sufficiente persistenza, emana suggestioni di fiori e di spezie amalgamate da una punta amara di luppolo.
Ginder Ale, belgian ale di colore ambra dorato e dall’aspetto piuttosto velato (g.a. 5,1%). Si tratta della birra creata nel 1928 da Joseph Ginderachter, birraio della Brouwerij Ginder-Ale, la cui produzione, nel 1991, fu trasferita a Leuven. Con un’effervescenza alquanto bassa, la schiuma bianca, sottile e cremosa, si dissipa rapidamente. L’aroma esala dolce, di un debole fruttato, con qualche accenno di caramello, zucchero greggio, porto. Il corpo, da leggero a medio, ha una consistenza parecchio acquosa. Il gusto scivola pieno, vivace, per tutta la breve corsa, a base di malto, lievito, frutta, limone, luppolo, spezie. Il finale, asciutto e pulito, introduce un discreto retrolfatto di un misurato amarore erbaceo.
Horse-Ale, belgian ale di colore ambrato e dall’aspetto nebuloso (g.a. 5%). L’effervescenza è da morbida a vivace; la schiuma bianca sgorga fitta, tenace, anche piuttosto aderente. L’aroma si effonde penetrante e insistente, a base di avena, caramello, grano, uva passa, malto, pane tostato, marmellata di fragole. Il corpo, medio-leggero, presenta una consistenza tra grassa e oleosa. Il gusto si distende morbidamente pieno, all’insegna di agrumi, lievito piccante, luppolo fruttato; e con una rinfrescante nota acida in prossimità del traguardo. Il finale, delicatamente speziato, introduce una sufficiente persistenza retrolfattiva dalle impressioni pressoché astringenti di scorza d’agrume.
Vieux Temps, belgian ale di colore ambrato e dall’aspetto alquanto torbido (g.a. 5,5%). È rifermenta in bottiglia con il lievito Das della Hougaerdse Das, la specialità prodotta dal 1931 dalla Brasserie Loriers di Hoegaarden, rilevata nel 1959 dalla Brouwerij Artois e chiusa 1972. Il nome vuol dire “vecchi tempi”, con riferimento alla produzione tradizionale della birra. Tipica belgian ale infatti, è diffusa soprattutto nel sud del Paese e risulta la più dissetante tra le birre di alta fermentazione. Con una carbonazione da bassa a media, la spuma biancastra emerge piuttosto moderata ma di buona tenuta. L’aroma si schiude tenuemente, a base di frutta, e richiami di malto, caramello, lievito, fieno, luppolo erbaceo. Il corpo, da leggero a medio, ha una consistenza un po’ acquosa. Una moderata, e piacevole, dolcezza caratterizza il delicato gusto di cereali, fieno, caramello. Il finale, secco e morbido, reca un lieve sentore di banana. Dal breve retrolfatto spuntano suggestioni a malapena fruttate e di luppolo.
Jupiler, premium lager di colore paglierino chiaro (g.a. 5,2%); birra per decenni di successo in Belgio. Esce tuttora dalla Brasserie Jupiler. Il suo lancio risale al 1966. La carbonazione, da media ad alta, produce una bella spuma bianca abbondante e durevole. L’aroma spira intensamente fiorito e luppolizzato, con qualche accenno di miele, burro, grano, fieno, erbe, sciroppo di zucchero. Il corpo, da leggero a medio, presenta una consistenza tra oleosa e acquosa. Il gusto di malto, morbido e secco, si dipana a proprio agio fin verso la metà della corsa, allorché il luppolo smette i panni di deuteragonista e impone il proprio amarore. Il finale fa appena in tempo a elargire qualche nota croccante di malto, perché il rampicante è lì, in agguato, con le sue sensazioni erbacee, a tratti astringenti.
Quanto alla gamma Leffe, si tratta di doppio malto dalla gran finezza, speziate e a malapena fruttate; di gusto pieno, morbido, cremoso. Vengono tuttora prodotte secondo le ricette originali. Vendute in oltre 50 paesi, registrano, in Belgio, le crescite più importanti; in Francia, sono addirittura le birre d’abbazia più famose.
E alla Leffe è stato dedicato un locale tematico, il Café Leffe: ambiente in stile classico, comodo e accogliente, con giornali a disposizione, anche un jukebox. Snack, insalate e piatti a base di birra costituiscono il menù proposto, semplice, tradizionale.
Il primo fu aperto in Francia, nel 1987; oggi saranno almeno 50. In Belgio invece, che attualmente ne vanta una quindicina, fece la sua comparsa, a Bruges, solo sette anni dopo. Ne esiste uno anche in Italia, presso il Lago Maggiore. Ma la gamma Leffe è reperibile anche nei Belgian Beer Café, l’altra tipologia di locali nata come angolo di cultura birraria belga oltreconfine.
Abbaye Notre-Dame de Leffe/Leffe
Abbazia nell’odierno quartiere di Dinant, nella provincia vallona di Namur, lungo il fiume Mosa utilizzato come via d’acqua navigabile fin dal secolo X.
Nel 1152 Enrico il Cieco, conte di Namur, cedette la chiesa di Leffe, risalente al 1060, ai premonstratensi di Floreffe. La chiesa diventò, prima, un convento, poi, nel 1200, abbazia. E, da documenti ufficiali, risulta che già nel 1240 l’abbazia produceva birra.
Nel secolo XV, prima, la peste falcidiò la comunità, poi, un’esondazione della Mosa rase al suolo l’edificio. Non appena ricostruita, Carlo I di Borgogna assediò, saccheggiò e incendiò l’abbazia. Nel 1735 l’abbazia fu costretta a offrire ospitalità a un reggimento di ussari che distrussero tutto quanto poteva essere distrutto.
Nonostante tutte le vicissitudini storiche, e le conseguenti interruzioni, l’attività brassicola continuò. Fino alla rivoluzione francese, quando, nel 1796, l’abbazia fu ufficialmente soppressa. Nel 1816 gli edifici furono venduti per essere trasformati in laboratori.
Acquisiti nel 1903 dai premonstratensi francesi in esilio, gli edifici furono restaurati nel 1931 dai loro confratelli fiamminghi di Tongerlo.
Nel 1937 l’abbazia di Leffe venne dichiarata edificio storico d’interesse nazionale. Nel 1952, a fronte delle condizioni finanziarie precarie in cui versava l’abbazia, l’abate Cirille Nys, stipulò un accordo di licenza con Albert Lootvoet, della Brasserie Lootvoet di Overijse (Brabante Vallone), che s’impegnò a seguire i processi di fabbricazione tradizionali. Nel 1954, la prima elaborazione, la Brune, ebbe subito successo. L’attività andò sempre più crescendo, finché, nel 1977, l’azienda fu rilevata dalla Brasserie Artois e la fabbrica chiusa. La produzione fu quindi trasferita da Overijse a Mont-Saint-Guibert (Brabante Fiammingo), presso la Brasserie Grade, fondata nel 1858 da Pierre-Joseph Grade e rilevata dalla Brasserie Artois nel 1970. Nel 1983 la Brasserie Grade divenne Brasserie Saint-Guibert; ma, nel 1996, fu chiusa anch’essa, e la produzione passò a Leuven.
Oggi, nonostante la sua appartenenza alla prima multinazionale mondiale della birra, la gamma Leffe continua a essere prodotta (in una quindicina di referenze) secondo la tradizione abbaziale. E ciascuna birra presenta le sue caratteristiche distintive, di colore, aroma, sapore.
Leffe Blonde, abbazia di colore dorato con riflessi brillanti (g.a. 6,6%); la birra base della gamma. Con un’effervescenza mediobassa, la schiuma si solleva abbondante, non così fine ma durevole. All’olfatto, freschi profumi floreali e vegetali spirano in armonia con la dolcezza del malto e una leggera speziatura. Il corpo ha struttura solida e abbastanza morbida, con una tessitura leggermente cremosa e anche un po’ appiccicosa. Il gusto, quasi amaro all’attacco, vira poi a un blando malto che, infine, diventa secco e prende note di luppolo. Il finale appare in balia di toni metallici, dopo un accenno all’arancia amara. Suggestioni fruttate, tostate e speziate caratterizzano la ricchezza retrolfattiva di persistenza tendente a lunga.
Leffe Brune, abbazia dubbel di colore marrone scuro con tonalità rossastre (g.a. 6,5%); conosciuta anche come Leffe Double. È la versione scura della Leffe Blonde, più ricca e intensa ma leggermente meno fruttata. Con una carbonazione piuttosto vivace, anche un po’ pungente, la spuma emerge ricca, compatta, stabile. L’aroma si apre con toni caldi, sviluppando sentori compositi di tostature e frutta secca, caramello e zucchero di canna, lievito e chiodi di garofano. Il corpo ha una struttura media e calorosa, in una tessitura tra cremosa e grassa alquanto appiccicosa. Il gusto, moderatamente fruttato, reca un accento amarognolo, secco, con qualche nota ruvida di legno e di terra. Il lungo finale tostato preannuncia una ricchezza retrolfattiva ampia: impressioni di caramello, liquirizia, melassa, caffè, frutta secca, dalla discreta persistenza.
Leffe Radieuse, abbazia di colore bruno dorato (g.a. 8,2%); considerata birra da intenditori. La carbonazione appare di una morbida consistenza; la spuma, densa e tenace, disegna invitanti “merletti di Bruxelles” alle pareti del bicchiere. Il bouquet propone forti profumi di caffè tostato, caramello, frutta candita, coriandolo, liquirizia, noce moscata. Il corpo robusto, e di trama oleosa pressoché appiccicosa, lascia a briglia sciolta l’avvolgente forza alcolica. Nel gusto, la dolcezza del malto prevale, senza sovrastarle, su note fruttate e floreali. Il finale arriva asciutto e lievemente torrefatto. Sensazioni di luppolo fresco, a malapena amare, segnano la lunga persistenza retrolfattiva, sotto l’egida calda dell’etanolo.
Leffe Vieille Cuvée, abbazia di un limpido ambrato carico dai riflessi rosso rubino (g.a. 8,2%); con sapore più vellutato rispetto alla Leffe Radieuse. L’effervescenza, da bassa a media, genera una schiuma ocra sottile, cremosa e aderente. L’aroma si libera acuto e ostinato di malto tra deboli sentori di lievito, frutta sotto spirito, caramello, toffee, legno, spezie leggere. Il corpo consistente, di trama cremosa, attacca il palato con calda e irresistibile sofficità. Il gusto, a malapena fruttato, reca note più decise di spezie e lievito piccante. Il finale è di un amarognolo terroso. L’ampia ricchezza retrolfattiva ha una persistenza discreta, ed elargisce suggestioni di miele, caramello, caffè tostato, frutta secca.
Leffe Bière de Noel, abbazia di un intenso colore rubino (g.a. 6,6%); la birra natalizia della Leffe. La carbonazione è piuttosto piana; la schiuma ocra, minuta, cremosa, stabile. L’aroma si libera con la dolcezza del caramello, del malto, dello zucchero candito, della melassa, della banana matura: sentori infervorati dalla frutta sotto spirito, dalla cannella, dai chiodi di garofano. Il corpo medio ha una tessitura alquanto oleosa. Anche il gusto si propone abbastanza dolce e un po’ appiccicoso, in un mix armonico di caramello, uva passa, malto, prugne, caramello, da una parte e dall’altra, noce moscata, chiodi garofano, cannella, anice stellato, zucchero bruciato. Il finale arriva sottilmente fruttato e asciutto. Un luppolo erbaceo caratterizza la discreta persistenza del retrolfatto con le proprie suggestioni amaricanti.
Leffe Tripel (Triple), abbazia tripel di colore giallo dorato scuro e dall’aspetto leggermente velato (g.a. 8,5%); prodotta da Brouwerij Hoegaarden. Con un’effervescenza moderata, la schiuma bianca emerge fine, cremosa, non abbondante ma persistente. L’olfatto propone delicati profumi di frutta a polpa gialla matura e, in secondo piano, floreali, di lievito, miele, resina, semi di coriandolo, chiodi di garofano. Il corpo, da medio a pieno, presenta una consistenza oleosa. Un prelibato gusto di malto, avvolto nel caldo alone alcolico, scorre su fondo luppolizzato per esaurirsi in una piacevole secchezza amarognola. Nella lunga persistenza retrolfattiva si esaltano impressioni di frumento, vaniglia, scorza di arancia.
Brasserie Nouvelle de Lutèce/Parigi, Francia
Prese il nome latino di Parigi, Lutetia Parisiorum. Fondata nel 1918, cessò l’attività nel 1974. Sorse sul sito della Brasserie de la Glacière, diventata tale nel 1910, dopo aver cambiato, nel 1900, il nome di Brasserie Leon Cotentin da quello originario Pilard, risalente al 1895.
Il suo marchio, che un tempo faceva addirittura moda, oggi è ridotto a una sola tipologia, di proprietà della InBev e prodotta a contratto da Les Brasseurs de Gayant di Douai, vicino al confine belga.
Lutèce Bière de Paris, bière de garde di colore ambrato e dall’aspetto velato (g.a. 6,4%); realizzata a fermentazione bassa. La più nota di questo stile, sembra essere ritornata alle vecchie glorie, dopo un periodo di decadenza. Ha comunque mantenuto i suoi appassionati, nonostante gli sfavori della critica. Aromatizzata con luppolo della Borgogna, viene condizionata aggiungendo birra giovane. Richiede, per la degustazione, il baloon. L’effervescenza è media; la spuma bianca, fine, densa, tenace. All’olfatto, alquanto complesso, si mettono subito in evidenza freschi e soavi profumi caramellati. Il corpo medio presenta una consistenza grassa un po’ appiccicosa. Il gusto risulta di estrema raffinatezza: un caramello dolce stemperato, durante la corsa regolare, da pregevoli note amarognole, a loro volta, venate di una “sapiente” punta di acido. Il finale, tutto del luppolo, si perde nell’articolata ricchezza retrolfattiva tra suggestioni asciutte e amare che persistono discretamente.