Bitburger Brauerei Th. Simon

Tratto da La birra nel mondo, Volume I, di Antonio Mennella-Meligrana Editore

Bitburg/Germania
Nel 1817 il trentatreenne Johan Peter Wallenborn, figlio di birraio, aprì, a sua volta, un pub e cominciò a produrre altbier per il consumo interno. Alla sua morte, nel 1839, venne egregiamente sostituito dalla moglie, Anna Katharina. Tre anni dopo subentrò Ludwig Bertrand Simon, proprietario di una birreria a Kyllburg, che aveva sposato la figlia di Anna Katharina, Elisabeth, e l’impresa prese il nome di Simonbräu. Infine, nel 1876, l’attività passò nelle mani del figlio di Ludwig e di Elisabeth.
Il ventinovenne Theobald Simon, particolarmente attratto dall’emergente sviluppo tecnico-scientifico dell’industria birraria, non tardò a impiantare un’impresa commerciale vera e propria, mettendo a frutto le conoscenze acquisite durante i numerosi viaggi per il mondo.
Tra le notevoli innovazioni introdotte: le celle frigorifere, nel 1879, assoluta novità nella regione; il primo impianto per la filtrazione della birra, nel 1887; nuove macchine refrigeratrici e impianti per la produzione di energia elettrica, nel 1896.
Inevitabilmente, Theobald si lasciò travolgere dalla dilagante moda delle lager e, abbandonando la altbier, nel 1883 mise a punto la sua pilsner, una delle prime in Germania. Battezzata Original-Simonbräu-Deutsch-Pilsener, la nuova bevanda creò subito un conflitto con la Pilsner Urquell che intendeva mantenere l’esclusiva sulla denominazione. Nel 1911 l’azienda boema adì le vie legali. Ma, due anni dopo, l’Alta Corte Tedesca fece chiarezza una buona volta per tutte: “pilsner” era semplicemente il nome di uno stile, adottabile da parte di chiunque.
Intanto, già nel 1891 la Bitburger aveva raggiunto la produzione di 10 mila ettolitri. Nel 1909 aveva anche varato la prima grande campagna pubblicitaria, seguita, nel 1927, dalla prima sponsorizzazione.
Verso la fine del secondo conflitto mondiale lo stabilimento venne quasi raso al suolo dalle bombe nemiche e l’azienda dovette affrontare un duro lavoro per poter riprendere in qualche modo la produzione. Dal 1945, e per quattro lunghi anni, la scarsità delle materie prime non consentì che l’offerta di Dünbier (cioè “birre magre”).
Con la fine della crisi la Bitburger cercò subito di riconquistare il terreno perduto e iniziò un’aggressiva campagna pubblicitaria basata sullo slogan “Bitte ein Bit” (“Per favore una Bit”), coniato nel 1951. Addirittura piantò una grana alla Anheuser-Busch, i cui prodotti finivano per essere chiamati solo “Bud” e, in locali superaffollati, “Bud” si confondeva facilmente con “Bit”. Pertanto la casa tedesca chiese all’Unione Europea di impedire l’uso dei marchi Anheuser Busch Bud e American Bud.
Nel 1958 costruì una nuova fabbrica. Nel 1970 introdusse un secondo slogan: “Abends Bit, morgens fit” (“Bit in serata, in forma al mattino”). L’anno successivo concentrò tutte le energie nella produzione della pilsner superando, dopo due anni, un milione di ettolitri. Quindi intraprese un lungo cammino di espansione.
Rilevò, nel 1979, la Gerolsteiner Brunnen, uno dei più grandi produttori tedeschi di acque minerali; nel 1991, la Köstritzer Schwarzbierbrauerei; nel 1993, la Schulteiss di Weissenthurm. Ma, già dal 1977, aveva assunto il controllo della polacca Browar Szczecin.
Più recenti sono invece gli acquisti della Wernesgrüner e di un’altra birreria in Polonia. Mentre in seguito all’inglobamento, operato dalla Carlsberg, del gruppo Holsten, la Bitburger poté acquisire alcuni marchi di quest’ultimo, come la Licher e la König-Brauerei. Infine, come risposta commerciale alla compera della Schweppes/Orangina tedesca da parte della diretta concorrente Krombacher, si accaparrò la commercializzazione, nel settore della ristorazione in Germania, dei succhi e delle bevande a base di frutta del gruppo austriaco Rauch.
Tuttora nelle mani dei discendenti del fondatore, il Bitburger Braugruppe, con 8 milioni 400 mila ettolitri all’anno (metà, appannaggio della sola Bitburger, che ha uno degli stabilimenti più moderni del mondo), occupa il terzo posto tra i produttori di birra in Germania. È uno dei nomi più conosciuti all’estero e, grazie all’attiva politica di esportazione, vanta una salda presenza in ben 60 paesi. Da sempre presente poi nel mondo del calcio, non si è neanche tenuto fuori dalla Formula Uno. Mentre nel 1989 inaugurò un centro visitatori che richiama più di 40 mila persone all’anno.
Ovviamente l’azienda di Bitburg opera nel pieno rispetto del Reinheitsgebot. Non refrigera più le birre con il ghiaccio dei laghi Eifel; ma dal 1909 utilizza l’acqua purissima estratta dal pozzo di proprietà, profondo 300 metri. Con la fermentazione completa ottiene un prodotto straordinariamente secco, dal finale pulito e di un lungo effetto “lager”. E, solo all’inizio degli anni Novanta, si decise a offrire anche una versione più leggera e una analcolica della sua pilsner.
Bitburger Premium Pils, premium pils dal classico colore giallo paglierino (g.a. 4,8%). È la seconda pilsner venduta in Germania, la prima tra le birre alla spina. La sua preparazione prevede una gravità originale più alta rispetto a quella dello stile; lieviti che assicurino una fermentazione quasi completa, il che toglie corpo al prodotto ma lo rende molto limpido; nonché una varietà di luppolo particolarmente amara. Lasciata maturare per tre mesi, non subisce la pastorizzazione. Con un’effervescenza media, la spuma viene fuori non così abbondante, comunque fine e duratura. L’aroma di luppolo è subito seguito da quello del malto, entrambi eleganti ma non molto intensi, caratterizzati peraltro da una singolare freschezza. Il corpo si propone straordinariamente leggero, morbido e pulito. L’equilibrio gustativo sfiora la perfezione: una spiccata sensazione di asciuttezza, dominata da sottili note amare, si protrae per l’intera corsa senza mai perdere il carattere di malto. Il finale non appare eccessivamente lungo; in compenso, è strutturato, armonioso, secco. Anche il retrolfatto ha una piacevole consistenza amara di luppolo. Si tratta insomma di una bevanda senz’altro di gran finezza.
Bitburgher Light, light pilsner di colore dorato: morbida effervescenza; schiuma di medie dimensioni con pregevole allacciatura; aroma moderato, a base di malto, luppolo, grano, paglia, fieno; corpo da leggero a medio di consistenza alquanto cremosa; gusto fresco, dolce, aspro, con qualche nota di fiori; finale secco e pulito; retrolfatto erbaceo (g.a. 2,8%).
Bitburgher Drive, pilsner analcolica di colore oro pallido (g.a. 0,1%); conosciuta anche come Bitburger Alkoholfrei. L’alcol viene estratto tramite dialisi per non intaccare le proprietà organolettiche. Ha una carbonazione media; schiuma bassa di rapida dissoluzione; aroma granuloso, a base di luppolo, malto, erbe, mais, foglie verdi, pane bianco; corpo leggero di trama acquosa; gusto che inzia dolce col grano per chiudere la breve corsa con un amarognolo erbaceo.
Bitburger Radler, radler di colore giallo pallido (g.a. 2,5%). L’effervescenza è quasi piatta; la spuma, scarsa ed evanescente. L’aroma sa tanto di limone soda, con qualche labile sentore di malto e zucchero. Il corpo, da leggero a medio, presenta una consistenza acquosa. Anche il gusto è impresso dal limone, e il malto può solo fare da spalla, in attesa di una buona acidità che si dilunga fin nel retrolfatto, quando viene fagocitata da note amare di luppolo e agre di lime.
La sua divisione Prove e Specialità iniziò nel 1991 a sviluppare, in un impianto di 20 ettolitri, nuovi procedimenti di macerazione, fermentazione e allevamento di lieviti. Alla fine, nel 2013, il Bitburger Braugruppe poté presentare la Craftwerk Brewing (“la birreria pilota all’insegna dell’innovazione”), unica al mondo nel suo genere. Si tratta insomma di un nuovo marchio che, coniugando metodi innovativi di produzione con l’artigianalità, si è subito avviato a occupare un prestioso posto nel mercato di nicchia per veri intenditori e appassionati di birra.
Craftwerk Holy Cowl, abbazia tripel di colore oro scuro leggermente velato: carbonazione bassa; spuma biancastra cremosa e di buona ritenzione; aroma fruttato, con intensi sentori floreali, erbacei e alcolici, nonché lievemente speziati; corpo medio di consistenza cremosa; gusto di media dolcezza e moderato amarore, con lunghe note di frutta, malto, zucchero candito, miele, lievito belga; finale alquanto acido e astringente; lungo retrolfatto, caldo abboccato, alcolico (g.a. 9%).
Craftwerk Hop Head IPA7, imperial IPA di colore ambra dorato e dall’aspetto lievemente intorbidito: effervescenza moderata; schiuma di medie dimensioni ma breve durata; aroma fresco e pulito, a base di agrumi, frutti tropicali, malto delicatamente biscottato; corpo da leggero a medio e di trama oleosa; gusto amaro e astringente, con note di fiori, legno, erbe aromatiche; finale secco e piuttosto piccante; retrolfatto dalla lunga persistenza resinosa (g.a. 8%).
Craftwerk Skipping Stone, american pale ale di colore arancione nebuloso (g.a. 4,8%); stagionale estiva. Ha un’effervescenza alquanto vivace; schiuma di un ocra pallido con sufficiente allacciatura; olfatto di lievito, erbe aromatiche, fiori, luppolo fruttato; corpo tendente al leggero e di tessitura da grassa ad acquosa; gusto fresco piuttosto asciutto e con sottile finitura resinosa; retrolfatto abbastanza lungo sotto il segno di un floreale luppolo amaro.
Craftwerk Tangerine Dream, american pale ale di colore giallo arancio un po’ offuscato dai lieviti: carbonazione media; spuma cremosa e abbastanza stabile; aroma di pino, buccia di mandarino, lievito, col predominio dei sentori di albicocca; corpo da leggero a medio e di consistenza un po’ acquosa; gusto con solida base di malto, aspre note di agrumi e una delicata punta di acidità finale; piacevole retrolfatto amaro (g.a. 5,8%).